«Siamo un’increspatura nello spazio»,  intervista a Giorgio Vasta

«Siamo un’increspatura nello spazio»,  intervista a Giorgio Vasta

Morel, voci dall’isola ospita la bella intervista di Maddalena Fingerle per Fillide. Il sublime rovesciato: comico umorismo e affini (numero 20 aprile  2020 in www.fillide.it). Le abbiamo chiesto di scrivere per noi qualche parola per introdurci ai temi della loro conversazione: Per il numero monografico di Fillide, Ridere con gli animali, abbiamo subito pensato a Giorgio Vasta che nella sua scrittura introduce gatti, lumache, pidocchi e api. “Osservare la vita animale è uno dei modi in cui facciamo precipitare lo sguardo all’interno del pozzo”, dice in un passaggio dell’intervista. Il carattere particolarissimo del suo modo di osservare apre una nuova prospettiva che ridimensiona lo sguardo umano facendo prevalere talora quello degli animali e permette il ricordo delle loro voci. Lo spostamento del punto di vista è caratteristico dell’ironia, uno dei temi centrali della nostra rivista; non avviene però sul piano di una superficiale ironia della condivisione di gruppo, ma di un’ironia del disvelamento come strumento espressivo. Poterlo intervistare è stato un modo bellissimo per festeggiare i dieci anni di Fillide. Ringraziamo molto Morel, voci dall’isola, per la sua ospitalità.

Hai diretto, insieme a Dario Voltolini, la collana “Zoo. Scritture animali” della :duepunti edizioni, un progetto che si occupa di animali, a partire dal materiale della copertina, ottenuta dalla lavorazione degli escrementi di elefante. Tra gli autori pubblicati figurano Giuseppe Genna, Davide Enia, Mario Giorgi, Giulio Mozzi, Nicola Lagioia, Marino Magliani, EvelinaSantangelo, Carlo D’Amicis e Matteo B. Bianchi. Ci racconti come è nato il progetto?

La :duepunti edizioni era una casa editrice molto bella, raffinatissima, di ispirazione e gusto europei e per nulla localisti che aveva sede a Palermo. I tre che l’hanno fondata – Andrea Carbone, Giuseppe Schifani e Roberto Speziale – sono persone con le quali si era creato nel corso del tempo un rapporto di amicizia, nonostante non ci vedessimo spesso. A un certo punto, dalle conversazioni occasionali che si condividevano, è venuta fuori questa ipotesi e si è ragionato per tanto tempo; loro hanno raffinato sempre di più l’idea anche fisica dei libri – fino a quel giorno in cui mi chiamarono dicendo che le copertine sarebbero state fatte con la cacca di elefante. All’inizio sembrava una battuta, poi ho capito che dicevano sul serio e che tra l’altro non era neanche male. Poi il progetto è andato avanti per qualche anno e siamo riusciti a coinvolgere quegli scrittori che a Dario e a me piacevano – e piacciono ancora adesso. Molti di quei progetti sono rimasti in sospeso. Giordano Meacci per esempio ci avrebbe dovuto consegnare un racconto sul cinghiale che poi si è dilatato al romanzo.

Emma Dante avrebbe dovuto consegnarci un testo su quell’animale palermitano sui generis che è il maialino, intendendo per maialino le cisterne dell’acqua che a Palermo sono diffuse soprattutto sui tetti – essendoci sempre stata l’emergenza idrica i privati o i condomini si sono attrezzati. La forma ricorrente di queste cisterne è appunto quella di una specie di maialino. Dunque ci fa piacere che la collana abbia prodotto – anche se in maniera parziale e seminale – conseguenze che sono andate al di là di quello specifico progetto editoriale. Altre idee sono rimaste in sospeso, il progetto editoriale :punti ha iniziato a declinare perché da un punto di vista commerciale non otteneva i risultati sperati, finché non si è deciso di chiudere. Poco più di un anno fa è arrivata la proposta di Vanni Santoni di ripubblicare per Tunué i racconti tutti quanti insieme. Il progetto vuole dare maggiore evidenza a quella che era la caratteristica originaria, ovvero creare uno zoo e usare gli animali per parlare dell’umano, delle persone.

In un’intervista su “Nazione indiana” si legge che gli animali sono per te «formazioni intrapsichiche arcaiche, cose, zone, frammenti fossili e discorsi futuri ma più probabilmente sedimenti extratemporali. Gli animali sono dove la vulnerabilità appare invulnerabile e, viceversa, l’invulnerabilità, l’impossibilità della morte (l’animale, anche nelle condizioni di pericolo più estremo, non pensa la morte), si rivela in tutta la sua traumatica fragilità. Dunque sono nuclei irrisolvibili e l’immaginazione letteraria ha fame di questo nutrimento». Come facciamo a sapere che l’animale non pensa alla morte? Al riguardo mi viene in mente il cane che, quando sta per morire, va a nascondersi per quello che noi chiameremmo pudore o dignità. Ma penso anche a Platone e in particolare a un passo di Claudio Eliano in cui dice che «[i]l cigno è superiore agli uomini nelle cose di maggior rilievo: sa infatti quando sta per giungere la fine della sua vita e, ciò che è ancora più importante, sopporta di buon grado l’appressarsi dellamorte, perché ha ricevuto dalla Natura il dono più bello, cioè la convinzione che nella morte  non vi sia nulla di doloroso e di triste» (Claudio Eliano, La natura degli animali, vol. II, 5, 34,313).

Sono osservazioni delle quali non esiste possibilità di una conferma o di una smentita. Da un certo momento in poi, al di là della questione scientifica, ogni affermazione sugli animali io la pronuncio in una chiave che è già letteraria, narrativa. C’è una parte di arbitrio ed è il momento in cui comincio a fare un discorso su di me utilizzando come sponda la vita animale. Uno dice che il cigno o il cane avvertono la morte, ma la parola morte ha già una tale complessità e mi verrebbe da dire che fuori dall’evento biologico la morte è un’esperienza esclusivamente umana. Un animale può avvertire o percepire – ed è complicato parlarne perché le categorie che utilizzo sono profondamente umane – la caducità, ma di nuovo mi chiedo: che cos’è per un animale la caducità? Per noi è un fatto fisico e culturale allo stesso tempo, per il cane o il gatto, profondamente indeboliti che si nascondono, ha senso dire che attendono la morte? La posizione antalgica che gli animali assumono quando vogliono ridurre al minimo la percezione del dolore è una strategia che va al di là della biologia e che porta un’immaginazione di ciò che sta per accadere, possono prendere congedo da sé stessi, dai loro cuccioli? Allora ho l’impressione che noi non possiamo non dire delle cose sugli animali provando ad attribuire loro quello che sappiamo di noi, ma nel tentativo di immaginare la vita animale in sé, si dovrebbe accettare di entrare in qualcosa se non di completamente buio, almeno in forte penombra, qualcosa di molecolare e di destrutturato. Quando io provo a pensare il pensiero di un gatto, di un cane o di un cavallo – ammetto di passare tanto tempo nel provare a immaginarlo – mi accorgo che tentare di pensare a contenuti, in termini causali, è continuare a cedere al fatto di essere umani. E quando ho l’impressione di avvicinarmi un po’ di più a quella che è la percezione del mondo che può avere un animale – sto facendo riferimento ancora a un mammifero – mi viene in mente una specie di dormiveglia, di condizione quasi sonnambolica. Sarà che buona parte dei gatti ti guardano come se non fossero mai del tutto svegli, non nel senso di intelligenti, ma nel senso della differenza tra veglia e sonno. Ho l’impressione che siano in quel punto intermedio, come se la loro vita fosse tutta reale e tutta sognata allo stesso tempo. Una decina di anni fa ero in Islanda per un giro dell’isola. A un certo punto, insieme alle persone con cui viaggiavo, ci troviamo in unposto che si chiama Húsavík, che è un luogo conosciuto perché da lì partono i battelli per avvistare le balene. Decidiamo, nella piena consapevolezza della dimensione turistica, di fare questa escursione. Si parte insieme ad altre venti persone, tutte sul battello nell’attesa di avvistare la balena – la parola è la stessa che si utilizza quando si parla di extraterrestri, di ufo. Ci si inoltra in questo mare nerissimo, era una giornata di cielo coperto, c’era pochissima luce. Le persone sono pronte, con cellulari e macchine fotografiche in mano. Non compare nessunabalena, passa il tempo; all’inizio c’è una condizione euforica a ogni segnale del marinaio che indica la direzione in cui potrebbe apparire. Vediamo un primo delfino, un secondo, poi una foca – io comincio a chiedermi se la somma di delfini e foche giustificherà il non avvistamento della balena. L’escursione si conclude, all’euforia segue un senso di frustrazione, quasi un impulso a rivendicare, a dire: “Ci avete truffato”, che ovviamente è una follia. Poi però la noia è così forte che uno vuole solo tornare e io a quel punto mi ricordo quello che mi ero detto e che avevo detto alle persone che erano in viaggio con me e l’avevano presa molto male perché non erano d’accordo: che in realtà era completamente sbagliata la prospettiva. Bello, significativo e traumatico sarebbe stato non che fossimo riusciti noi ad avvistare la balena, ma che la balena guardasse noi. Chi può sapere se in quell’ora trascorsa in mare l’occhio di una balena non sia comparso, dorso nero dell’animale su dorso nero dell’acqua?Un occhio altrettanto nero. È impossibile saperlo. Di nuovo l’unico modo per dire qualcosa
di questa scena è inventarla, è pretenderla, è dire che è successo, che la balena ci ha guardato.
Ciò che a quel punto ci si domanda è: che cosa siamo noi dal punto di vista della balena: non chi, ma che cosa. Non siamo persone, non siamo il battello, siamo un’increspatura nello spazio, non particolarmente pericolosa perché troppo piccola, abbiamo la rilevanza che ha un volo di un uccello, il passaggio di un altro cetaceo. Non siamo niente di tutto quello che riteniamo di essere. È come se la balena ci dicesse cosa siamo. Questa mi sembra la prospettiva sulla quale interrogarsi.

Presente, un libro scritto insieme ad altri autori, racconta il presente di un anno, il 2011, a mo’ di diario a quattro voci. Ogni scrittore ha infatti un mese da raccontare e le voci si danno il cambio: inizia gennaio Andrea Bajani, a seguire c’è febbraio con Michela Murgia, marzo di Paolo Nori e aprile raccontato da te, per poi ricominciare con maggio di Bajani e via dicendo.Nel capitolo Aprile, compaiono i cavalli e la loro allegria che in realtà non è altro che la proiezione della soddisfazione umana di portar loro da mangiare, il parto della cavalla e lascena con un mulo e il tentativo da parte della voce narrante di immedesimarsi nella visionemonoculare e laterale dell’animale.
È vero che quello che ci affascina nelle figure animali è umano o pseudo-umano?

La scena del gioco di sguardi è la trasposizione narrativa delle situazioni che si creavano nel periodo che ho trascorso in Francia, quando il pomeriggio andavo a correre. Non c’erano praticamente persone, non c’era un centro abitato e le cose che mi trovavo davanti erano i recinti con animali diversi. Quando incontri gli animali in una situazione come quella hai un senso di relativizzazione della tua persona e della tua presenza perché loro sono dove devono essere e stanno facendo quello che – biologicamente e da un certo momento in poi, attraverso gli umani, culturalmente – si ritiene debbano fare; quindi pascolano, ruminano, si muovono lentamente nello spazio. Mentre invece tu, persona, con tutto quello che ti porti dietro anche di prepotenze e presunzione antropocentrica, hai l’impressione di essere, in quei sentieri sterrati, appunto delimitati dallo steccato dei pascoli, non del tutto intruso, ma comunque meno pertinente rispetto a loro. La loro stessa presenza in uno spazio come quello comincia a insidiarti, comincia a far affiorare il comico, il ridicolo che è degli esseri umani. Ti accorgi che sei lì, in pantaloncini, col fiatone, con il cranio sudato davanti alla placidità più assoluta. Allora, a quel punto, lo sguardo bovino, ma vale anche per quello equino, ha la capacità di rappresentarti come negli specchi magici sia concavi che convessi che formano, e in qualche modo riformulano, la percezione che si può avere di sé. In quella distorsione c’è un elemento rivelatore e quindi, complice anche il periodo di disorientamento nel quale mi trovavo e che poi di fatto non si è mai esaurito, lo sguardo di quegli animali diceva qualcosa di me. Si tratta di una naturale serietà, che però non è neanche l’espressione giusta perché la serietà presuppone che ci possa essere qualcos’altro e invece nella forma bovina non è che la serietà la contrapponi a qualcos’altro, è una sobrietà strutturale, determinata anche dalla
forma del corpo, da questa specie di enorme ventre dal quale quasi casualmente vengono fuori da un lato una testa e dall’altro una piccola coda, poi tutto il resto è una forma ottusa – lo dico non in senso negativo, ma descrittivo. Ho l’impressione che quindi uno non veda l’umano negli animali, ma veda semmai quell’elemento esposto, culturale o extra-culturale, che è di ogni essere umano e che molte volte viene dimenticato o lasciato da parte e che emerge proprio osservando gli animali.

Leggermente diverso è invece il caso del parto della cavalla, al quale io di fatto non ho assistito.
Ho sperato per giorni che la cavalla partorisse in tempo, cosa che però non è avvenuta. Quando poi ho scritto il mese di aprile ho deciso che la cavalla avrebbe partorito all’interno dell’invenzione narrativa quando lo decidevo io e mi sono messo a studiare il parto delle cavalle, ho guardato un’enorme quantità di filmati e sulla base di quello ho scritto la scena. E di nuovo provi stupore davanti a un fenomeno che, per citare Celati, è in sé completamente sereno. Ma è una serenità che non si contrappone a qualcosa, è una serenità in sé. Alla fine di Verso la foce Celati scrive: «Ogni fenomeno è in sé sereno». Ed è vero, anche la tempesta e il ciclone sono, nel rapporto che intrattengono con sé stessi, fenomeni sereni; è puro dinamismo che si manifesta, poi siamo noi in quanto esseri umani a guardare quel fenomeno come a una punizione, per esempio, contro i nostri comportamenti. Ma i fenomeni sono ignoranti, ignari di sé. Il parto della cavalla ha una perfezione davvero geometrica nell’essere tutto tranne che geometria ed è un fenomeno che non sa nulla di sé, di cui nessun animale saprebbe prevedere un cambiamento rispetto a quello schema di cui è soggetto e oggetto. E questo è per me sconcertante, seducente, mi fa rendere conto che la vita animale è per me cinema permanente.

I bambini dopo un po’ hanno qualcosa che a me personalmente stanca,soprattutto da una certa età in avanti, diventano un po’ troppo culturali.

Dipende dalla consapevolezza?

Cominciano ad avere dei comportamenti imitativi, i modelli arrivano dalla televisione, dal modo di parlare dei compagni di classe che hanno appreso quel modo di parlare da altri. Per gli animali la sensazione è che ci sia qualcosa di inesauribile. Forse, se io nell’età adulta, essendo cresciuto con animali, soprattutto gatti, non ho mai avuto animali è per due ragioni: perché da un lato so che non sarei capace di prendermene cura come vorrei, e poi perché smetterei di fare qualsiasi altra cosa; passerei il tempo in maniera nevrotica continuando a guardarli e quindi questo potrebbe costituire un problema.

Sulla questione dell’imitazione mi viene però in mente la scimmia. Anche lei ha dei comportamenti di imitazione, perché non ci si stufa a guardarla.

Sì, ma quanto la scimmia può concepire quel comportamento come un’imitazione? Il fatto di rifare un gesto ha a che fare con l’imitazione, secondo me, soltanto negli esseri umani. Non so se, e non posso saperlo, che cosa la scimmia pensa – è il caso di dire la scimmia pensa, la scimmia fa – nel momento in cui rifà dei movimenti. Ieri, dato che appunto l’esplorazione della vita animale non ha soste e mi ritrovo spesso a guardare video che vengono diffusi in rete, guardavo il filmato di un gatto che sorprende sé stesso davanti a una specchiera. Non è in sé un fatto nuovo; quando accade, i gatti o sono del tutto indifferenti oppure, se si percepiscono, sono diffidenti e soffiano. Invece questo gatto, secondo i modelli che da esseri umani abbiamo a nostra disposizione, era come se davvero stesse comprendendo qualcosa, come se avesse una specie di intuizione. Allora solleva la zampa anteriore destra e comincia a strofinarsi un orecchio, come accade quando si lavano, e poi guarda, si ferma, ricomincia, sempre guardandosi. Come Groucho Marx, in un film dei fratelli Marx,3 quando si ritrova davanti a quello che all’apparenza è uno specchio e in realtà è un sosia, è una copia, e allora a un certo punto comincia a fare le azioni più improvvise e inaspettate per cogliere di sorpresa quello che suppone non sia un riflesso, ma qualcun altro e dall’altra parte il sosia copia velocissimo e riesce a fare ciò che fa l’originale. Questo rapporto che a noi è noto, tra originale e copia, e quindi quella che è la possibilità dell’impostura, non so cosa sia nel mondo animale, per lo meno in quello dei mammiferi. Ma nel momento in cui quel gatto continua ad agire in quel modo io rimango incantato a guardarlo e mi rendo conto che sto reagendo come centinaia di migliaia di milioni che guardano quei video dei gatti, e, senza la presunzione che ci sia chissà quale differenza tra il mio modo di guardare e quello degli altri, so però che non si riduce tutto alla tenerezza generica nei confronti del gattino o del cagnolino. C’è un senso di stupore, quasi di sgomento e struggimento davanti a ognuna di queste manifestazioni. Questi video sono confezionati in un certo modo, con titoli del tipo: non potrete non intenerirvi guardando il cane che accoglie il padrone che non vede da anni. Secondo me, seppure indotti a guardare attraverso un certo tipo di presentazione, che è una grammatica che suggerisce o impone una direzione e riduce al minimo altre possibilità di lettura, all’interno di quegli sguardi c’è una specie di ulteriore nucleo (segreto): osservare la vita animale è uno dei modi in cui facciamo precipitare lo sguardo all’interno di un pozzo. Possiamo anche antropomorfizzare e costruire un racconto, ma stiamo continuando a guardare perché i conti non tornano.

Nei tuoi libri e racconti gli animali compaiono molto spesso. Penso per esempio al gatto in Quadro, ma soprattutto al Tempo materiale, che si apre con l’immagine dei gatti «divorati dalla rinotracheite e dalla rogna». Roma è un «animale minerale». Cani e gatti randagi sono portatori di infezioni, rabbia, schiuma e follia, in contrapposizione con gli animali del negozio, c’è inoltre una «luce animale». Ci sono gli squali in Africa, come presa in giro, e i pony eroinomani. Ci sono i pidocchi e le api. La bambina creola, muta, ma in realtà capace, a differenza del protagonista, di parlare senza parole e senza l’ossessione del linguaggio, ha il corpo «rosso e nero, pieno di leoni e di tigri», deve restare creatura, non essere toccata né trasformata da parole o storia. Il rapporto tra il protagonista e la bambina è fortemente segnato dalla presenza di animali, inizia infatti con una scena meravigliosa in cui il ragazzino porta a casa una zanzara che aveva morso la bambina e cerca di nutrirla, fino a farla morire di rabbia e dolore e a far confluire nel corpo dell’insetto il sangue di entrambi. Continua con le lumache e messaggi che il ragazzo cerca di spedirle raccogliendone, colorandole e scrivendo su ogni guscio una lettera per comporre una frase: «Tu chi sei?» che nella collocazione si trasforma in «Tu sei chi». Dopo una decina di giorni rimangono le scie biancastre e la disperazione delle parole. Quando restano soli lei emette un verso, una cosa animale.
Penso però anche ai gatti in Storia del mio presente, nella raccolta Risentimento, in particolare alla«tartaruga col pelo al posto delle squame, la testa chiusa nel guscio, le fusa profonde, ipogee, una tartarugatta – la tartarugatta». Gli animali acquistano anche un aspetto metaforico che concerne l’organizzazione sociale e politica dei ragazzi. Sono i pidocchi che, infettando, permettono ai giovani protagonisti di rasarsi le teste e sono le api, meglio le api sociali con il loro sistema, che danno l’idea ai ragazzi di comunicare con l’alfamuto. Il volo delle api, apparentemente casuale, è parte di un meccanismo organizzato che i protagonisti provano a riprodurre. Le api sono cellule anonime che comunicano attraverso codici. Dopo le notizie sul rapimento di Aldo Moro, l’unico a dire qualcosa è il canarino e i nuovi nomi dei ragazzi sono l’inizio di una metamorfosi, come la muta dei serpenti. Che significato ha il linguaggio degli animali all’interno del romanzo?

Sono tutte cose che non sono state pianificate. A un certo punto mi sono accorto che scrivevo gli animali, che cercavo dei modi per farli comparire perché mi piacciono, a me piace tantissimo scrivere e descrivere gli animali. Chiaramente mi sono chiesto come mai. Quello che posso dire – senza pretendere che sia la risposta giusta – è che gli animali portano dentro la pagina quello che a me piace moltissimo dei personaggi umani. Nel Tempo materiale ci sono due linee principali di personaggi, una è quella di Nimbo, un personaggio iperlinguistico, poi ci sono Scarmiglia e Bocca. C’è un’altra linea, di cui fa parte la bambina creola, il Cotone,Morana e con loro buona parte degli animali messi in scena. Sono personaggi che non hanno con il linguaggio un rapporto immediato, o per lo meno la bambina creola non è innamorata del linguaggio ma una lingua la usa per farsi comprendere. Il Cotone non parla, Morana dice poche battute ed è connotato da questa laconicità. Non sono per forza muti, ma non stanno a proprio agio nella lingua. Nel romanzo ci sono animali parlanti, parlano nel momento in cui si attiva una dimensione magica o fiabesca. Parlano solo con e per Nimbo, nessun altro potrebbe stabilire una relazione con loro. A me piace proprio questo non avere a che fare con il linguaggio in forma di ossessione, ma neppure nelle forme minime. C’è una particolarità in questo tipo di attenzione nei confronti della naturale laconicità: che io penso, di animali che ho conosciuto, di gatti che ho avuto da piccolo, ma vale anche per la tartarugatta, di ricordarmi anche le loro voci. Anche se so che nessuno di loro mi ha parlato, è come se io conoscessi la loro voce. Come se l’intersecarsi delle azioni, dell’andatura, dell’odore, della particolare musicalità delle fusa o del miagolio avessero creato una voce specifica. Cosa che secondo me di fatto accade. Ogni animale, nel mescolare questi elementi che gli sono strutturali, produce una sua specifica voce, che per me però nel ricordo diventa un fatto acustico, io mi ricordo la voce di quegli animali. Anche se può sembrare una follia io conosco la voce della tartarugatta.
Mentre scrivevo però non pensavo di inserire un animale parlante, l’animale parlava perché io desideravo che parlasse e non lo vedevo nemmeno come un elemento favolistico. È ammesso, nel romanzo, come qualcosa di assolutamente naturale che ogni cosa possa prendere la parola, come i canarini gialli, che soprattutto negli anni Settanta era davvero come i piani in fòrmica delle cucine, erano dappertutto – non so poi che fine abbiano fatto.

Fillide si occupa di comico e umorismo. L’ironia, secondo te, rientra nel comico? L’ironia
compare nei tuoi libri spesso in maniera originale, in riferimento ad azioni, nel Tempo materiale il protagonista viene scosso ironicamente, in Quadro il modo di arredare la casa, per tornare alla fòrmica, è ironico. L’ironia è nel Tempo materiale qualcosa che fa male al protagonista, antiironico per autodefinizione, contrapposta alla serietà, vicina alla farsa e contro l’ideologia.
C’è differenza in questo senso nell’uso dell’ironia verso gli altri e verso sé stessi?

Se c’è da parte mia una resistenza nei confronti dell’ironia non è in assoluto. Sono gli usi di uno strumento come quello ironico che a me interessano e che possono eventualmente infastidirmi. Ragiono sempre in una prospettiva del tutto personale. A me le forme di unanimità, di condivisione e di complicità, tarata su un livello elementare, non piacciono; mi mettono in difficoltà e mi creano disagio. Posso fare il tifo per la Juventus, ma se mi dovessi ritrovare a guardare la partita di quella squadra con tifosi accaniti, ne desidererei la sconfitta perché mi dà troppo fastidio stare all’interno di quell’unanimità. Le ragioni di questo atteggiamento sono in parte stupide, per esempio lo snobismo, però allo stesso tempo ci sono altri motivi. Il gruppo inevitabilmente è un organismo emotivo, esclamativo e io il punto esclamativo non lo uso mai. Quando l’ironia ha come presupposto o obiettivo quello di creare complicità, stringere i legami, costruire il gruppo, generare quella tipologia di complicità, a me, quasi permettendomi di citare un personaggio che non sono io, ossia Nimbo,l’ironia fa male. Mi affascina, ne riconosco la forza eccitante, però allo stesso tempo mi distrugge.
Diversa è invece l’ironia più individuale, in Madame Bovary per esempio, che è un romanzo estremamente ironico ma di un’ironia per nulla di grana grossa, in cui la scrittura non assume mai la forma del dito che indica l’oggetto dell’ironia dando di gomito al lettore dicendo: dai, ridiamo di Emma. È l’ironia che ha Giuseppe Pontiggia nella Vita di uomini non illustri, in cui è spietato e crudelissimo il discorso che fa sui personaggi che mette in scena, però allo stesso tempo è pienamente partecipe. È l’ironia di qualcuno che è sì il boia, ma al tempo stesso il condannato. Se l’ironia si allontana dal trauma e lo tiene a bada o addirittura lo nega, mi sembra un lavoro poco utile. Quando invece l’ironia ha a che fare con il disvelamento più che con la condivisione penso che sia uno strumento espressivo meraviglioso.

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