Stefano Corbetta – Molo n.3 2/08/1974 –

 

Il richiamo del mare è il ricordo di te, in piedi a un passo dal lampione nella sera in cui mi dicesti che lui era tornato. Lasciavi l’isola, lasciavi me. Devo andare, mi hai detto a bassa voce, lui mi ama. Ti vedo ancora mentre parli con quel tono uniforme, il molo alle spalle e la tua ombra allungata sul cemento accanto alla mia, come se adesso solo le nostre ombre fossero in grado di toccarsi e tu, povera ingenua, ti stessi arrendendo alla menzogna. Lui mentiva, lo sapevamo entrambi, ma né io né te avevamo la forza per respingere quell’evidenza. Ti sentivi in colpa perché sapevi che ci eravamo incontrati in questo triangolo di terra in mezzo al mare per cavalcare il tempo, ti sentivi in colpa perché sapevi che poteva essere per sempre. Eri venuta a me con la foga di chi è straniero, e lo avevi fatto solo pochi minuti prima, con la schiena sulla sabbia e io che ti guardavo alla luce della luna; e adesso eri lì, incapace di scacciare il fantasma di lui, rendendo me incorporeo e trasparente, solo un incidente da liquidare in fretta prima che un bagliore potesse risvegliarti e spingerti tra le mie braccia. Per questo ti ho odiato in questi anni. A volte ti fermavi a guardare il tatuaggio sulla mia spalla, il pesce che si divincola con la bocca aperta e l’amo infilato di lato. Mi accarezzavi il collo e scendevi piano dandomi un brivido, e stavi in silenzio. L’ultima sera di agosto hai fissato i tuoi occhi sul mio tatuaggio, ti sei avvicinata e hai lasciato scorrere la lingua sulla pelle fino alla punta dell’amo, poi mi hai guardato con quel tuo sorriso immobile: mi hai presa, sussurrasti, ora fammi vedere di cosa sei capace, e hai chiuso gli occhi.

Dicevi che la morte è come il sesso, celebra la vita e la vendica quando si riduce a miseria.

Lo dicevi a me, con gli occhi pieni del mio odore, e io sapevo che mi stavi distruggendo, sapevo che te ne saresti andata, e allora l’isola sarebbe stata la mia patria di naufrago senza te.

Lo dicevi guardando le stelle nel riquadro della finestra nella mia baracca.

Lo dicevi a me che prima dell’alba uscivo con il peschereccio e prendevo il largo guardando la costa, immaginandoti sdraiata nel mio letto, le lenzuola a terra e la curvatura perfetta delle natiche dentro cui mi ero perso nella notte, adesso rivolte alle pale della ventola appesa alle travi del soffitto.

Tornavo al tramonto, il rosso del sole misto al sangue dei tonni che riversi sulle assi di legno celebravano la mia vittoria su di loro, e la mia su di te. Mi aspettavi seduta sulla spiaggia, guardando il mare. Ti vedevo da lontano, sapevo dove trovarti. E dal peschereccio seguivo le onde che mi spingevano verso di te, e sapevo che quando lui ti avrebbe portato via, io sarei rimasto qui perché gli uomini del mare appartengono alla terra che il mare lambisce, perché le onde, nel loro movimento ostinato ed eterno verso la riva, mi avrebbero comandato di non lasciare l’isola. Io sono schiavo di questa terra e di questo mare. Io sono schiavo della tua assenza, schiavo della tua menzogna. Non ti è servito incontrarmi per spezzare il legame con lui.

Avresti dovuto svegliarti qui, dopo che lui ti aveva abbandonato, e qui vivere e morire con me. Invece mi hai plasmato nel disprezzo per te. Sarò Teseo di un nuovo mito, e verrò a prenderti, un giorno.

 

 

Stefano Corbetta è nato a Milano nel 1970. Accanto alla professione di arredatore di interni, ha affiancato negli anni esperienze in ambiti diversi: la musica jazz, il teatro, la scrittura. Ha tenuto laboratori di scrittura in alcune scuole dell’area milanese. Ha esordito nel 2017 con il romanzo “Le coccinelle non hanno paura” (Morellini). “Sonno bianco”, il suo secondo romanzo, è uscito per HACCA nel settembre 2018. Sempre nello stesso anno è stato incluso nella antologia “Lettera alla madre” (Morellini). Nel 2019 ha scritto due racconti che sono stati inclusi nella raccolta “Polittico” (Caffèorchidea) e “Mosche contro vetro” (Morellini)

 

 

 

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