Nella stanza di Emily

Nella stanza di Emily

Intervista a Benedetta Centovalli

di Ivana Margarese e Antonella Nocera

 

Quando sono andata ad Amherst volevo realizzare un mio vecchio desiderio di visitare la casa di Emily Dickinson e interrogare quella sua scelta così radicale di solitudine e di isolamento. Questo suo avere caparbiamente scelto la poesia, sposato la parola, era per me molto stimolante. Tanto più – mi dicevo – nella nostra società in cui l’apparire ha assunto dimensioni molto ingombranti e a volte imbarazzanti. Lei, Emily, una che vestiva di bianco, che girava per casa con due gigli in mano e con delle poesie scritte a lapis su foglietti e poi infilate in tasca. Una pazza, un’eccentrica o forse solo una donna determinata a essere sé stessa in un tempo in cui alle donne questo non era consentito?
Poi siamo precipitati dentro questa distopia reale in cui stiamo cercando di barcamenarci e da cui ci auguriamo di uscire al più presto. Con le ossa rotte, con la conta dei morti che ci lascia senza fiato e che interroga le nostre coscienze di cittadini. Tutti chiusi in casa, non per scelta, ma poi è mai davvero una scelta? Ed Emily ci cammina incontro nella sua attualità senza tempo. La stanza luminosa, la scrittura notturna, la cucina, la serra e il giardino, erano il perimetro della sua esistenza. La casa, il guscio di noce necessario per fare esplodere dal quotidiano lo straordinario (“E la mia vita è questa: / allargare le mie piccole mani / per accogliervi il Paradiso”). La lettura delle sue poesie, una scialuppa di salvataggio.

I.M: Inizierei dal titolo del racconto. Trovo infatti Nella stanza di Emily un titolo perfetto per per questo lavoro in cui man mano che si va avanti con la lettura ci si avvicina alla poetessa in modo talmente intimo che sembra quasi di poterla toccare.
Nella stanza di Emily, proprio per questi suoi movimenti di pubblica intimità è uno dei libri più belli e sinceri che ultimamente mi sia capitato di leggere. Vorrei sapere come sei giunta a questo titolo e quanto tempo ti ha preso la scrittura del testo.

Grazie delle tue parole, sono lusingata. Il titolo è arrivato mano a mano che scrivevo, cioè mano a mano che mi addentravo nel racconto di questo mio viaggio ad Amherst, Massachusetts, che aveva come obiettivo visitare la stanza di Emily Dickinson. All’inizio avevo pensato a Storia di una noce per indicare quanto il piccolo possa essere infinitamente grande. Ma se tutto era cominciato con una noce, quella noce c’era perché volevo andare ad Amherst. Così siamo arrivati a Nella stanza di Emily, grazie anche a Filippo Tuena, curatore e ideatore della collana. Nella parola “stanza” ci sono tante possibili risonanze a cominciare dalla Woolf, ma vengono a posteriori. La conquista della casa, della stanza, del nome, tutto questo c’è, ma è sottotesto.
A scrivere ho impiegato poco tempo, alcune cose le avevo già collaudate (Gide, la Maier), altre erano nella testa, Emily invece una magnifica ossessione maturata nel viaggio.

I.M: In una lettera del 7 giugno del 1862 Emily scrive:
“Se la fama mi spettasse, non potrei sfuggirle – e se non mi spettasse,
le giornate più lunghe si consumerebbero inutilmente
per me nella caccia – e mi verrebbe meno,
allora, l’approvazione del mio cane – meglio il mio umile rango”.
La vita di Emily e queste parole mi hanno fatto riflettere sul valore dell’essere semplicemente se stessi seguendo ciò che ci sta a cuore nonostante viviamo un mondo in cui anche quando si ha poco da dire si ha la volontà di mettersi in mostra e rappresentarsi sotto il maggior numero di sguardi possibili.

Emily Dickinson rappresenta la verticalità e la radicalità, avere scelto e accettato di essere quello che era e insieme avere lavorato strenuamente a diventare quello che è diventata da quello che era. Credo che sia questo il punto: ognuno di noi può lavorare per migliorare, allenare il proprio talento, ma poi in fondo resta quello che è, parte da sé stesso, dalla propria ferita originaria e su quella costruisce il proprio racconto. Mi hanno colpito due cose in Emily Dickinson: la caparbietà e la determinazione nei riguardi della scrittura, la consapevolezza del proprio valore e del valore della poesia. Per una giovane donna in epoca vittoriana nel profondo e protestante New England non era roba da poco. La piccola noce valeva una montagna. Ed era da sola. Questo la rende un poeta senza patria, lei non scrive in inglese, lei è la poesia, lei scrive con la lingua della poesia. Intraducibile anche per questo.
Oggi confondiamo la poesia con la prosa, con la prosa direbbe Emily siamo tutti capaci.

A.N: Scrive Bachelard: “Ha un senso dire che “si legge una casa”, si legge una camera, poiché camera e casa sono diagrammi psicologici che guidano gli scrittori e i poeti nell’analisi dell’intimità”. La cameretta di Petrarca, ad esempio, apre uno squarcio di intimità che riverbera dolcemente il suo dissidio. Come e in che modo lo spazio intimo della casa/camera ha influenzato la tua visione della poetessa?

Avevo immaginato che la stanza di Emily Dickinson racchiudesse il suo segreto, e in un certo senso è così. Il viaggio è stato come una specie di ricerca della ragione del suo isolamento e insieme della sostanza di quell’isolamento. Ovviamente il segreto resta tale, ma quella camera è un posto unico. Ha quattro grandi finestre dalle quali entra una luce forte e verticale. La luce dei quadri di Vermeer, mi sono detta. Una luce speciale. Dickinson scriveva soprattutto di notte, quando la casa scivolava nel silenzio e i lavori domestici davano tregua. Nella sua camera-fortezza, nella sua camera-giardino poteva accadere di tutto, le pareti erano la sua immaginazione. Quello era il suo mondo, un mondo vasto e pieno di meraviglie.
Oggi che siamo costretti a stare chiusi in casa per il pericolo del contagio da coronavirus, la sua scelta mi pare che possa illuminarci in tutta la sua forza. Emily Dickinson decise di chiudersi prima in casa e poi nella sua stanza quando le delusioni, la morte di persone amate e la mancata pubblicazione dei suoi versi le sembrarono chiudere una dopo l’altra le porte di un’esistenza normale. Quindi scelse e insieme non scelse, ma dimostrò al mondo che era possibile vivere della sua sola poesia. E dell’amore delle persone più care, la sorella Lavinia e l’amica Sue, il fratello Austin. La sua autoreclusione è diversa dalla nostra situazione ma può aiutarci a vivere meglio un grave momento di privazione e di disagio, a interrogarci sul significato e sul valore di queste privazioni. E soprattutto a interrogarci su di noi.

Nel libro parli anche della fotografa Vivian Maier e della sua esperienza artistica solitaria. Ci piacerebbe dicessi qualcosa in proposito.

La storia della bambinaia Vivian Maier è una storia straordinaria, anche in questo caso una donna – questa volta in pieno Novecento – ha trovato il modo per salvarsi, per resistere al mondo, ma ha tenuto nascosta la sua passione, l’ha protetta dall’invidia degli dèi, pur praticando la fotografia in modo ossessivo e del tutto professionale. Una singolare vicenda di privazione, di esilio, e allo stesso tempo una storia di riscatto silenzioso, intimo, privato. Vivian Maier è morta in povertà, passando gli ultimi tempi della sua vita rovistando nella spazzatura, mentre le sue fotografie scoperte da un giovane sono diventate ricercatissime e oggi circolano nel mondo in mostre a lei dedicate.
C’è una determinazione all’espressione di sé e insieme una rinuncia alla condivisione di questi risultati, c’è la paura di non essere accettati e compresi, c’è alla fine una rivolta silenziosa verso il sistema che discrimina gli ultimi e le donne.

I.M: In un’altra sua lettera Emily scrive: “Non mi sembra affatto possibile che i miei amici muoiano, perché voglio loro tanto bene che, se la morte venisse a cercarli , mi sembra che non se ne andrebbero”. La semplicità nel cucire insieme amore e morte e nel trovare nella legge privata degli affetti un farmaco contro la morte mi ha riportato alla memoria del primo lutto che ho provato. Ero una bambina e ho pensato esattamente la stessa cosa.

Fin dall’infanzia, il rapporto con la morte di Dickinson è molto stretto, ricordiamoci che la casa dove abitava negli anni dell’adolescenza era di fianco al cimitero di Amherst, così lei da giovane seguiva dalla finestra il susseguirsi dei funerali e ne era incuriosita. Poi in quell’epoca morire era assai facile, senza pensare alla guerra civile americana che fece molti morti nelle giovani generazioni. Nei versi di Dickinson così la morte diventa un vero e proprio personaggio, talvolta un corteggiatore atteso che viaggia addirittura in carrozza, e le poesie mostrano questa assidua frequentazione e familiarità con la morte, la declinano in modi differenti.

Ci piacerebbe sapere se stai lavorando a un altro romanzo.

Sto pensando ad alcune storie che partono sempre da una suggestione letteraria forte, giocando con una scrittura intima e personale. Mi interessa molto scrivere sconfinando, mettere insieme memoir, reportage, diario, riflessioni letterarie, biografie, insomma un po’ di tutto, anche delle fotografie, come nel caso di Nella stanza di Emily.

Biografia

Benedetta Centovalli è nata a Firenze e vive a Milano. Editor con il gusto e la passione di sperimentare, ha lavorato con ruoli di responsabilità per quasi trent’anni in alcuni dei laboratori più interessanti della nostra editoria, dedicandosi alla creazione di collane e soprattutto alla scoperta di nuovi talenti letterari.
Nel 2003 ha curato per Rizzoli un’antologia di racconti di narratori italiani, Patrie impure. Italia, autoritratto a più voci.
In ambito novecentesco ha curato nel 2009 le Opere complete di Romano Bilenchi (Rizzoli) e una sua biografia per immagini, Un uomo contro (Effigie). Ha introdotto testi di Giorgio Bassani (Utet), Manlio Cancogni (Utet), Alda Merini (Rizzoli). Ha scritto in volumi e riviste tra gli altri di Cristina Campo, Maria Corti, Gina Lagorio e Clara Sereni. Ha collaborato con varie testate e oggi scrive con regolarità su L’Indice dei Libri del Mese.
Da anni si dedica alla formazione in ambito editoriale presso l’Università Statale di Milano e di Milano-Bicocca e insegna in Scuole di scrittura e Master di Editoria. È stata visiting professor a Yale, NYU e Princeton. Fa parte del Consiglio scientifico del Centro ricerche e studi autobiografici della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.

1 Comment
  • Gian Paolo Grattarola
    Posted at 00:15h, 17 Aprile Rispondi

    Che amabile rievocazione, che Intensa e suggestiva conversazione. Mentre vi leggevo ho visto Emily fluttuare nell’alone magico delle vostre parole, e poi d’un tratto sedersi accanto a voi ad ascoltarvi. Complimenti. per la malia seduttiva della vostra capacità di riportare in vita ciò che vive dentro i dorsi polverosi dei libri.

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