Lo scrivano di Nietzsche

Intervista a Fabrizio Coscia

di Ivana Margarese

Come è nata l’idea del libro ? 
L’idea iniziale è nata da una vecchia canzone di Caetano Veloso, intitolata «Peter Gast». Riascoltandola di recente, mi ha incuriosito molto il testo, che parla di «musica silenziosa», di «ospite del profeta senza dimora» e di «rosa del crepuscolo di Venezia». Sono partito da qui, ispirato da queste note e in particolare da queste parole, e sono andato a curiosare un po’ tra i dati biografici di Heinrich Köselitz, il compositore fallito e segretario di Nietzsche, ribattezzato dal filosofo Peter Gast. Poi, riprendendo in mano «Ecce homo», dove ricordavo ci fosse un riferimento a Gast, sono rimasto molto colpito da quello che ne scrive Nietzsche: «In fondo era lui il vero scrittore, mentre io ero semplicemente l’autore». Una frase con la quale il filosofo voleva evidenziare il lavoro di scrittura materiale di questo suo allievo-scrivano, un lavoro di trascrizione, distinguendolo da quello di chi invece concepisce un’opera. Ma è una frase in un certo senso anche enigmatica, che mi ha spinto a interrogarmi sulla natura della scrittura, sullo sdoppiamento inevitabile dello scrittore/autore. E in ogni caso mi ha spinto ad approfondire ancora di più il personaggio di Köselitz: ho letto una sua biografia, l’unica, pubblicata in inglese, e mi sono immerso nel carteggio tra lui e Nietzsche, sempre più conquistato da questo strambo personaggio. Pensavo di ricavarne una biografia non proprio classica, alla maniera della «Vita di Rancé» di Chateaubriand, ma poi, per una serie di dubbi e di incertezze, che quasi sempre accompagnano il mio lavoro, ho rinunciato al progetto, che stava già abortendo quando Filippo Tuena mi ha chiesto un libretto di una settantina di cartelle per la collana di Mattioli 1885 ad edizione limitata e numerata, da lui diretta. Non potevo dire di no a Tuena, considerato che sono un suo fan da sempre, e anche affascinato da questo progetto di microeditoria, tutto rivolto alla qualità, piuttosto che alla quantità; così ho pensato che dalla storia di Köselitz avrei potuto ricavare un testo dove poter osare un po’ di più, qualcosa che si avvicinasse a una dimensione quasi teatrale, a metà tra il monologo interiore e la narrazione biografica, ma una narrazione fatta da una voce narrante un po’ misteriosa, non meglio identificata, che si rivolge a Köselitz con il “tu”, forse è lui stesso, chissà, che ripercorre la propria vita dal di fuori, da una distanza sufficiente ad avere un tono piuttosto spassionato.
Lo scrivano di Nietzsche è un titolo evocativo. Mi domando se sia stato il titolo che hai avuto in mente sin dall’inizio ?
Più o meno sì. È un titolo che rimanda, naturalmente, a «Bartleby lo scrivano», il racconto di Melville. Mi piaceva far riferimento a questa figura della rinuncia, che ha nella letteratura illustri antenati: oltre allo stesso Bartleby, con il suo «I would prefer not to», penso anche al Wakefield raccontato da Nathaniel Hawthorne, che all’improvviso, senza alcuna ragione apparente, abbandona la moglie per andarsene a vivere, da solo, in un appartamento a pochi isolati di distanza, scegliendo un esilio volontario e inspiegabile per venti lunghi anni. O ai personaggi di Robert Walser, che ritrovano la loro dimensione nel ruolo di assistenti e che studiano in istituti dove si impara a servire, a fare i camerieri. O al «digiunatore» del racconto di Kafka. Ecco, il mio Köselitz discende da questa genealogia qua: anti-eroi che fanno della loro vita una sorta di ascesi, che trovano nella loro mediocrità, nel fallimento, la loro sfera di realizzazione.
 Il libro racconta di un legame tra due uomini attraverso la voce di uno dei due, noto agli studiosi di Nietzsche come Peter Gast, anche se questo non era il suo vero nome. Ciò che a mio parere emerge nella lettura è la doppia natura del legame che sembra avere più importanza della sua definizione stessa. Il protagonista a volte vorrebbe scappare,  allontanarsi da Nietzsche per dedicare più tempo alla sua attività di musicista, ma al contempo trova nella sua fedeltà al filosofo un senso per la sua stessa vita .
È così, perché Köselitz/Gast è un personaggio dimidiato, sdoppiato fin nel nome: da un lato è l’artista mediocre, colui che è venuto al mondo con una vocazione ma senza il talento per realizzarla, un po’ come il Salieri di «Amadeus», la pièce di Peter Shaffer, che entra in contatto con il genio e ne viene distrutto; dall’altro è l’assistente, lo scrivano, colui che vuole annullarsi, essere uno zero, essere cenere (per tornare a Walser). Quest’ultimo è il suo desiderio più profondo, ma una parte di sé non può accettarlo, perché si è dato uno scopo nobile e allora il servizio che rende a Nietzsche diviene anche un alibi per non realizzare questo scopo del quale non è all’altezza, e la sua rabbia, la sua insofferenza per il tempo che il Maestro gli sottrae alla composizione sono in realtà rivolte a se stesso, quel se stesso che sa invece di dover imparare soltanto ad essere all’altezza del fallimento. Ma c’è anche un altro aspetto del rapporto tra Nietzsche e Gast che mi interessava: paradossalmente, il Maestro e il suo allievo si ritrovano a essere, reciprocamente, gli unici ammiratori l’uno dell’opera dell’altro: Köselitz della filosofia di Nietzsche, che nessuno prendeva sul serio, e Nietzsche della musica di Köselitz, che restava ineseguita, ignorata e disprezzata da tutti. È questo, forse, a unirli davvero: il fatto che ognuno abbia bisogno dell’approvazione dell’altro, approvazione che nessuno dei due può trovare al di fuori del loro rapporto. Con la differenza, però, che Nietzsche era un genio incompreso, mentre Köselitz era semplicemente un artista senza talento. 
 A un certo punto del testo scrivi “C’è sempre il segno di una diversità in questo cieco abbandono alla letteratura, soprattutto quando ciò che ti circonda ti appare inerte, estraneo, noioso”. Mi piacerebbe un commento su questo.
Ho sempre pensato che la letteratura (e l’arte in generale, forse) sia la risposta a una tara originaria che in qualche modo si cerca di compensare. Lo scrittore scrive perché è un nevrotico, perché è un disadattato, e non solo lo scrittore, anche il lettore, colui che cerca nei libri un lenimento, una compensazione, o una conferma, a quella ferita e a quell’assenza. Ma la letteratura non lenisce, o almeno non lenisce soltanto: la letteratura è balsamo e veleno, ferita e rimedio, allo stesso tempo. Come il pharmakon per gli antichi greci.
Infine vorrei chiederti qualcosa su questo tempo attuale di isole e isolamenti e su come tu lo stia vivendo.
Se proprio devo essere sincero, potrei dire solo delle banalità: impiego il mio tempo facendo lezioni a distanza con i miei alunni, portando il cane fuori per pochi minuti, facendo servizi in casa, correggendo compiti, leggendo qualche libro e vedendo qualche serie tv. Non scrivo nulla. Non riesco a immaginare niente di significativo da scrivere. È come se all’improvviso tutto ciò che ho scritto o che penso di poter scrivere, di fronte all’impatto d’urto della realtà, mi apparisse inutile, superfluo, del tutto vano. Mi infastidisce molto la chiacchiera mediatica. È nel silenzio, come scrive Max Picard, che «l’uomo vive a metà strada tra il suo annientamento – poiché il silenzio può essere l’inizio della perdita della parola – e la sua risurrezione». Ecco, se c’è qualcosa che posso dire di stare imparando in questo periodo è a coltivare il silenzio, a contemplare la possibilità della perdita definitiva della parola, e dunque la possibilità del nostro annientamento o – ed è l’alternativa più auspicabile per tutti – della nostra risurrezione, dopo questo silenzio.
Biografia 
Fabrizio Coscia (1967) è nato a Napoli, dove vive e insegna. È critico letterario e teatrale, oltre che editorialista, del quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo “Notte abissina” (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi “Soli eravamo e altre storie” (ad est dell’equatore, 2015, tradotta in tedesco) “La bellezza che resta” (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017), “Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon” (Sillabe, 2018), “I sentieri delle Ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso” (Exòrma, 2019), e “Lo scrivano di Nietzsche” (Mattioli1885, 2019). Alcuni suoi testi tratti da “Soli eravamo e altre storie” sono stati tradotti in inglese e pubblicati su riviste letterarie internazionali. È stato definito «uno dei critici e saggisti letterari più affascinanti di questi ultimi anni» (Massimo Onofri, «L’Avvenire»).
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