18 Lug Fosca Pizzaroni, Partigiane, Documenti sulle donne della Resistenza in provincia di Caserta
di Elisabetta Imperato
Partigiane. Documenti sulle donne della Resistenza in provincia di Caserta, edizioni La Valle del tempo, dà voce alle donne della Resistenza italiana, troppo spesso dimenticate dalla storiografia ufficiale. Attraverso testimonianze dirette, il libro restituisce dignità al ruolo femminile nella lotta per la libertà, offrendo uno sguardo autentico e necessario sulla memoria storica del nostro Paese.
Il libro di Fosca Pizzaroni “Partigiane. Documenti sulle donne della Resistenza in provincia di Caserta”, edizioni La Valle del tempo, è una ricerca documentaria che riporta alla luce il ruolo delle donne della Terra di lavoro nel processo di liberazione nazionale. L’autrice ricostruisce la storia di un centinaio di donne, impegnate in Campania e fuori regione, nel supporto logistico, nella creazione di reti di rifugio e come combattenti, accanto agli uomini che per troppo tempo sono stati considerati come unici protagonisti della Resistenza partigiana. Varie sono le fonti utilizzate: dai documenti ufficiali ai diari di guerra e alle autobiografie. Emergono dallo studio figure rappresentative, di livello culturale generalmente medio alto, quali quelle di Delia Brusadin, Lucia Gorzillo, Margherita Troilli. Si tratta di identità negate, storie dimenticate di grande rilievo. Dopo la liberazione, le donne coinvolte nella Resistenza ottenevano nella maggior parte dei casi la qualifica di patriote. Grazie alla consultazione del fondo Ricompart (Archivio centrale dello Stato per il servizio di riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani), l’archivista ha documentato la molteplicità dei ricorsi con cui le donne non si accontentarono di tale attribuzione, presentando istanze formali alle autorità competenti, per reclamare il titolo di partigiane, per dimostrare un ruolo più attivo nella lotta contro il nazifascismo. Ed è proprio questa iniziativa corale di ricorsi ad assumere i connotati di Resistenza documentaria. Il passaggio di qualifica, infatti, non comportava solo un maggior riconoscimento economico ma dava anche visibilità storica e dignità morale alle combattenti. Soffermiamoci quindi sulla questione della lingua. Se è vero che parlare non è mai neutro (titolo dell’opera fondamentale di Luce Irigaray), è anche vero che le parole scritte incidono maggiormente nella formazione di pregiudizi linguistici.
Esaminando i moduli dei ricorsi, Fosca Pizzaroni evidenzia i limiti significativi della modulistica ufficiale, tutta formulata al maschile. La mancanza di segnalazioni linguistiche destinate alle donne favorì il consolidarsi di una narrativa esistenziale esclusivamente maschile, con poche eccezioni emergenti sul fronte letterario (es: L’Agnese va a morire di Renata Viganò).
Si accentuava così, attraverso la lingua, uno stereotipo diffuso anche sul piano istituzionale che rivelerà anche sul lungo periodo, una burocrazia ideologicamente orientata su ruoli maschili. Nella modulistica, infatti, il genere maschile assume il significato di soggetto universale. Questa invisibilità fa percepire le donne come eccezioni, richiedendo loro di adattarsi a un modello linguistico non pensato per loro. Dalla sparizione linguistica al disconoscimento identitario, civile e politico il passo è breve. Dal punto di vista cognitivo, questo modello attiva il bias di rappresentatività: ciò che non viene nominato diventa meno pensabile come parte del gruppo. I meriti partigiani sembrano pertanto intrinsecamente maschili, mentre le donne, se considerate, lo sono solo come aiutanti, staffette, rubricate comunque in ruoli ausiliari. Di conseguenza le partigiane faticarono a vedersi riconosciute come protagoniste della lotta, a pieno titolo. A proposito del loro intervento nella guerra di liberazione, si parla spesso di familismo morale, per sottolineare come l’azione delle donne, dove presente, fosse orientata soprattutto per sostenere i partigiani di famiglia, i mariti e i figli. Si perpetua quindi una narrazione storica distorta e carente. La struttura della modulistica evidenzia un chiaro esempio di bias istituzionale: anche quando le donne hanno compiuto le stesse azioni dei loro compagni, il sistema le classifica come deviazione dalla norma. In sintesi: il linguaggio al maschile non è solo una convenzione grammaticale, ma un filtro cognitivo e culturale. È una barriera simbolica che ostacola l’autopercezione delle partigiane e il riconoscimento del loro ruolo storico, rinforzando pregiudizi e distorsioni di genere. Questo produce effetti tangibili nel processo di legittimazione istituzionale e nel modo in cui la memoria collettiva tramanda la storia della Resistenza. A tale disconoscimento ne va aggiunto un altro che riguarda il ruolo del Sud nel processo di liberazione, confinato generalmente nelle sole quattro giornate di Napoli. La legge in materia decretò che soltanto le lotte che raggiungevano i tre mesi potevano essere rubricate come lotte partigiane. Il contesto geografico del sud e della Campania, raramente considerato nella narrativa resistenziale, trova in “Partigiane” un’ampia dimostrazione di riscatto, in considerazione del fatto che molte donne del sud operarono in Campania e in altre regioni e anche in Terra di lavoro si verificarono episodi di lotta degni di nota.
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