Giorgia O’Keeffe: i colori della contemplazione

di Luciana De Palma

 

 

Georgia O’Keeffe nacque nel 1887 in una fattoria nel Wisconsin da genitori allevatori di bestiame. Nel 1905 frequentò la School of the Art Institute a Chicago e nel 1907 l’Art Students League a New York. Nel 1908 conobbe il futuro marito, il fotografo Alfred Stieglitz, in una galleria newyorchese dove poté ammirare gli acquerelli di Rodin.
Fu negli anni di poco successivi che Stieglitz, addentrato negli ambienti avanguardistici della Grande Mela, organizzò per lei molte mostre, consentendole di farsi conoscere e apprezzare. Le tele dei primi anni dieci, per lo più acquerelli e illustrazioni a carboncino, sono connotate da un forte astrattismo in cui l’armonia di figure, linee e colori dà vita a composizioni che colpiscono per il forte impatto plastico.
Dieci anni più tardi Georgia O’Keeffe abbandonò la tecnica dell’acquerello per dedicarsi a pitture di grande formato: i soggetti dei suoi quadri divennero le forme sia naturali che architettoniche ispirate dalla città di New York.
Il suo sguardo, come una lente d’ingrandimento, catturava dettagli che, riportati sulla tela, conducevano la mente dentro esplorazioni ascetiche mai sperimentate prima.
Fu sull’onda di questa novità che arrivò il successo.
Dal 1929 con Alfred Stieglitz, che sposò nel 1924, cominciò a trascorrere diversi mesi all’anno nel Nuovo Messico che rappresentò per lei un’immensa fonte di ispirazione.
I tipici paesaggi del deserto, disseminati di fiori, colline rocciose, conchiglie e ossa di animali, divennero sublimazioni erotiche in cui trasfigurare l’organo sessuale femminile.

 

Le variazioni di colore, che rendono suadenti le increspature dei contorni, fanno sì che le figure ritratte si elevino a materia astratta, spirituale; questo suggerisce che l’interpretazione dei suoi lavori non possa prescindere l’evocazione di significati spesso celati dietro metafore di cui le forme riconoscibili e apparentemente semplici si fanno portatrici.

Tutto ciò che è dipinto si fa portavoce di una complessità spesso ignorata o misconosciuta a cui si può approdare solo con la consapevolezza che dietro la facile apparenza delle cose vibra un intenso valore etico, quasi mistico, da recuperare tanto con la ragione che con l’istinto.

“È più facile per me dipingere che raccontare con le parole e preferirei davvero che la gente guardasse piuttosto che leggere. Non vedo alcun motivo di dipingere una cosa che può essere resa con un altro mezzo”, disse.

Le forme rappresentate sono in sé di rapida descrizione, ma quanto accade in seguito ad una lunga e attenta osservazione è simile al prodigio di una illuminazione: all’improvviso il senso della vita e della morte si manifesta con assoluta e vigorosa chiarezza.
Tutto sembra essere a portata di mano: il flusso incessante tra luce e ombra, vuoti e pieni, dettagli e panorami, ha l’effetto di uno scarto dirompente tra il presente e l’eternità, liberando la mente dall’obbligo di seguire il corpo così da potersi perdere negli infiniti rivoli dell’immaginazione.
Nei suoi quadri non esistono piani primari e secondari poiché ogni oggetto dipinto ha la medesima funzione e desta il medesimo interesse, sprigionando in una vertiginosa contemporaneità di sensi e logica milioni di sensazioni che non è facile definire.
Con un linguaggio pittorico scabro Georgia O’Keeffe ha creato visioni di notevole impatto: lasciando spuntare un fiore dall’orbita di un teschio di mucca, si spalanca la certezza che persino un essere umano possa valicare i limiti insiti nella sua precarietà per appropriarsi di quella straordinaria verità che anche in lui alberghi una goccia di divinità.

Se il tempo passa e fugge, non c’è che la creazione artistica per rompere le catene della mortalità, con l’insieme di paure e angosce che comporta, e raggiungere quello stadio in cui alla coscienza della fine si unisce l’ebbrezza di un attimo di immortalità. Ormai confermata la fama, negli anni trenta Giorgia O’Keeffe ricevette incarichi e lauree honoris causa da molte università.
Morto nel 1946 suo marito, nel 1949 si trasferì in modo permanente nel Nuovo Messico. La sua casa, ritratta da diverse angolazioni, fu a lungo il suo soggetto preferito; anche le nuvole, riprese come se fossero guardate dai finestrini di un aeroplano, divennero spunti per numerosi lavori.
La luce calda che si stendeva sulle vaste terre aride l’affascinarono profondamente per tutta la vita: lavorò ad una incessante e febbrile ricerca per scoprire nella rigorosa compostezza dei paesaggi desertici cenni di bellezza e di pace.
I quadri realizzati durante questo periodo risentono di un’evidente esigenza contemplativa che può essere soddisfatta solo quando se ne accettano gli esiti; in una prospettiva tesa a cogliere gli aspetti sublimi e quelli meschini dell’esistenza nulla deve essere trascurato, minimizzato, dimenticato.
Si avverte nei suoi quadri una forza atavica che richiama l’attimo in cui tutto ebbe inizio. Quella spinta ancestrale che determina negli esseri viventi la propulsione a proseguire nel compito di trasformazione che può salvare dall’estinzione completa.

In ogni quadro, che rappresenti un teschio, un fiore, una casa, una collina, una conchiglia o una nuvola, si respira desiderio di vita e di mutamento, di libertà e di appartenenza, una brama incondizionata di cercare ancora il modo per colmare le forme di scopo e sostanza.
Colpita agli inizi degli anni settanta da una malattia alla vista, fu costretta a ridurre i tempi dedicati alla pittura. Morì a Santa Fe (Nuovo Messico) nel 1986, a 98 anni.

Si può essere certi che tutto quanto ha realizzato nella sua pittura è stato sempre è solo frutto della sua invincibile determinazione a trovare tra tanti il proprio linguaggio artistico, quello che le avrebbe consentito di raffigurare il mondo come nessun altro aveva fatto prima di lei e come nessuno avrebbe fatto dopo.

“Ho detto a me stessa, io ho nella mia testa cose che non somigliano a quelle che mi sono state insegnate – forme ed idee così vicine a me – così naturalmente conformi al mio modo di essere e di pensare che non mi è mai capitato di mettere su tela. Ho deciso di iniziare da capo, di cancellare quello che mi è stato insegnato”.

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