intervista a Annachiara Biancardino autrice di “Scritture partigiane”

Di Muriel Pavoni

La letteratura resistenziale d’autrice non è, come si pensa, solamente memorialistica relativa all’attività delle partigiane, ma un corpus molto più ampio e sfaccettato che tocca diverse tematiche che contribuiscono a tramandare la memoria, ad analizzare le forme di partecipazione, a sviluppare un’analisi sul ruolo della donna. Inoltre raccontare vite esemplari, aspetti intimi e privati connessi al periodo storico, pone la prospettiva in un raggio più ampio, che si proietta sul presente e problematizza l’esperienza partigiana interrogandosi sulle ombre di tale esperienza. Il saggio di Annachiara Biancardino, “Scritture partigiane”, offre una prospettiva ricca ed esauriente, prendendo in esame testi considerati fondamentali per la narrativa e la memorialistica come “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò o “Diario partigiano” di Ada Prospero, e altri meno noti come “Raccontiamoci com’è andata” di Gina Lagorio, romanzi dai toni intimisti come “Dalla parte di lei” di Alba De Cespedes e “Tetto murato” di Lalla Romano; fino ad arrivare a romanzi contemporanei: “Dove finisce Roma” di Paola Soriga, “I giorni di Vetro” di Nicoletta Verna, “Evelina e le fate” di Simona Baldelli, che riportano la questione storica al centro di una prospettiva critica.

Per prima cosa Annachiara, ti faccio i miei complimenti perché il tuo punto di vista è interessante e singolare. La tua analisi si orienta attraverso testi significativi, ma che offrono prospettive di frontiera da cui osservare la tematica resistenziale dai margini e non dal centro, come hai operato queste scelte?

Sono io a doverti ringraziare per l’attenzione e la cura verso il mio lavoro. Ho scelto di privilegiare testi che offrissero prospettive decentrate, intime e a volte “laterali” sulla Resistenza. Credo che dietro ci siano almeno un paio di motivazioni, diverse ma contigue. Da un lato, mi interessava restituire non tanto la narrazione tradizionale e ‘canonica’, che è stata già ampiamente indagata, quanto le zone d’ombra, i conflitti interiori: credo che la letteratura più significativa sia quella capace di interrogare la memoria collettiva anche attraverso i margini, le ferite, offrendo più domande che risposte. Dall’altro, il mio intento era quello di contribuire restituire la parola ad autrici poco conosciute o quasi dimenticate (la più nota tra quelle di cui scrivo è sicuramente Renata Viganò, ma siamo sicuri che oggi si continui a leggere L’Agnese va amorire?)

Nella sua declinazione al femminile, come viene ridisegnata la narrazione resistenziale attraverso autrici di cui parli?

La narrazione resistenziale d’autrice si caratterizza per uno slittamento della prospettiva: più che il racconto delle azioni eroiche, emergono la dimensione privata, l’elaborazione della paura, della perdita, della tensione tra il dovere politico e la vita personale. Del resto, noi donne sappiamo molto bene che il privato e il politico sono destinati a sconfinare l’uno nell’altro. E forse anche per questo raramente le autrici guardano al fascismo come a un fenomeno prettamente storico, circoscrivibile entro confini cronologici netti (segnati da eventi militari): le scrittrici interpretano il fascismo anche in chiave antropologica e culturale.

Gina Lagorio è stata una narratrice e un’intellettuale che nella sua opera ha spesso parlato della difficoltà delle donne di coniugare il ruolo interno alla famiglia con la necessità di autoaffermarsi; lei stessa ha riscontrato in prima persona questa difficoltà, invece non ha mai trattato le tematiche legate alla resistenza nella sua produzione letteraria, pur essendo però stata coinvolta in prima persona. Mi colpisce la scelta del suo memoir uscito nel 2003, che però ha caratteristiche peculiari rispetto alla tradizionale memorialistica legata alla Resistenza, ce ne vuoi parlare?

Il memoir di Gina Lagorio offre una testimonianza tardiva e molto riflessiva, in cui la Resistenza viene raccontata come una esperienza di vita da far decantare nel tempo (e infatti, nonostante la distanza temporale, Lagorio è una delle autrici che maggiormente si concentrano sulla quotidianità della lotta). Credo inoltre che ne abbia parlato solo molti decenni dopo perché affrontare il tema probabilmente non rientrava nei suoi piani autoriali. Ne ha avvertito l’esigenza – umana, prima che letteraria – a causa dello sconforto per la situazione politica nazionale e internazionale del nuovo millennio. Il suo mi è sembrato un caso particolarmente interessante anche per questo, perché il racconto delle vicende resistenziali sconfina in un’analisi del post-Liberazione.

Tra le autrici prescelte noto un’assenza, quella di Joyce Lussu, come mai la scelta di non includerla? C’è una ragione particolare che fa deviare il suo percorso rispetto alle tappe che tu ha scelto per la tua analisi?

Della meravigliosa figura di Joyce Lussu si discute molto, probabilmente anche grazie alla bella e ricca biografia che racconta la sua storia, pubblicata di recente, nel 2023 (mi riferisco a La sibilla di Silvia Ballestra). Lussu è stata molto attenzionata nell’ottica del legame con il partigianato. Io ho preferito, come giustamente notavi, muovermi nei margini. Ma la risposta principale credo sia questa: il mio libriccino non voleva, come scrivo nell’Introduzione, proporsi come un ‘canone’ – in cui certamente andrebbe inclusa Lussu insieme a molte altre scrittrici partigiane –, ma come una lettura di pochi casi esemplari a cui sono particolarmente e intimamente legata, e che spero contribuisca a una rivalorizzazione del tema, che merita senz’altro studi più completi e approfonditi, magari attraverso indagini collettive.

Non mi sembra un caso che molti dei romanzi da te analizzati “L’Agnese va a morire”, “Dalla parte di lei” e il recente “I giorni di vetro” siano stati considerati dalla critica romanzi popolari, tu usi il termine nazionalpopolari, giudizio volto a screditare questo genere letterario e le sue autrici ieri come oggi, cosa ne pensi?

Uso tre diversi termini, “nazionalpopolare”, “popolare” e “populista”, e si tratta in ognuno di questi casi di citazioni. Ovviamente i tre aggettivi possiedono sfumature semantiche differenti, ma nel caso delle nostre autrici vengono sempre usati per denunciare la presunta semplicità delle loro opere (e di conseguenza il presunto dilettantismo di chi le ha scritte). Tuttavia, ad esempio nel caso dell’Agnese va a morire, negli ultimi decenni sono stati fatti enormi passi in avanti in ambito critico. Credo che le opere che citi vadano recuperate e valorizzate anche per questo: oggi siamo pronte e pronti (spero) ad analizzarle con una nuova sensibilità e nuove consapevolezze metodologiche che ci permettono di render loro giustizia.

Pensi che queste narrazioni – mi riferisco sia alle novità introdotte nelle narratrici del passato che portano al centro della politica le questioni private, e ancora di più a quelle contemporanee nell’inquadrare nel passato la violenza del presente – possano contribuire alla ridefinizione del concetto di resistenza?

Le autrici che si occupano o si sono occupate del racconto partigiano parlano di Resistenza non solo nei termini della lotta armata, ma come lotta quotidiana contro la marginalizzazione, ricerca di verità storiche scomode, costruzione di una identità politica collettiva nel segno dell’intreccio tra antifascismo ed emancipazione. Ad esempio Soriga, l’autrice di Dove finisce Roma, nei ringraziamenti cita le combattenti di ieri e anche di oggi. Credo che queste scrittrici abbiano molto da insegnarci in merito al concetto di Resistenza, alla sua profondità e complessità.

La Resistenza ha contribuito all’emancipazione femminile, ma cosa si osserva oggi? Che eredità ci ha lasciato?

La Resistenza ha aperto spazi nuovi di libertà per le donne, rendendole visibili come soggetti politici attivi. Tuttavia, questa conquista è stata spesso tradita nel dopoguerra, quando molte donne sono state ricacciate all’ombra della storia ufficiale. L’eredità più profonda sta forse nella consapevolezza che la libertà femminile deve essere continuamente riaffermata e difesa. E, altro aspetto che mi sta particolarmente a cuore, che non si lotta esclusivamente con le armi, ma anche con la penna o attraverso la cura o l’attività pedagogica o altro ancora: ognuna di noi può cercare uno spazio di resistenza.

 

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