esondare

di Cristina Pasqua

 

Eppure, anche se sbirciando attraverso gli scuri aveva annusato pioggia, il Silvi, dopo una breve sosta al gabinetto, si era dato una sciacquata e vestito in tutta fretta. In cucina, scaldato nel bricchetto il caffè del giorno prima, dopo aver tirato fuori il necessario dallo sgabuzzino, era già pronto a uscire. Recuperati gli stivaloni da pesca, scese in garage. Il passo malfermo, aggravato dal peso del caccia e pesca e della mantella impermeabile, poco s’accordava con le assi sconnesse degli scalini. Per un tempo breve, i neon illuminarono l’interno di un lucore molle rischiarando l’ambiente e tutto il ciarpame lì accatastato: le piastrelle avanzate del bagno di sopra addossate al muro, un sacco di calce, una latta di vernice, attrezzi appesi a parete e il tavolaccio ingombro di pezzi di motore, lampadine, batterie esauste, gomitoli di spago e fildiferro. In un angolo le valigie, protette dal cellophane, e Franca, sua moglie, schiena al muro, schermata dalla trasparenza di una custodia porta abiti della tintoria. Si intuiva la pelle vizza, sul collo livida, le palpebre semiabbassate attraverso le quali si indovinava uno sguardo di gesso. Quando mise in moto, l’interno del fondo, per quanto rischiarato, allo stesso modo della carta assorbente con l’inchiostro, fu risucchiato dall’oscurità che lastricava portico e aia, e più oltre, fino a spingersi al cancello, alla sterrata rabbuiata, al bosco.

Il Silvi accostò lungo il ciglio della strada, davanti all’ingresso del bar Leopardo, un paio di curve prima Liorni. Al bancone ordinò uno stravecchio che mandò giù in tutta fretta per poi frusciare via veloce, scrosciando tra le strisce di plastica della tendina. Proseguì fino a Sastri, dove si era dato convegno con il Pigmeo e Acqua Velva. Difatti erano già lì, parcheggiati nella piazzola accanto ai rovi, se ne indovinavano le sagome dietro i vetri appannati, confuse tra il fumo dei toscanelli e la bruma appiccicosa del mattino, entrambi seduti in pizzo ai sedili dell’850, a scaldarsi con due mignon di Vecchia Romagna e Caffè Borghetti. 

«Ecoti che era ora» disse il Pigmeo scostando il deflettore.

Arnaldo Sestili superava di poco il metro e cinquanta. Nero e appuntito, veniva da un paese dell’entroterra di vattelapesca che nominava sempre ma che non conosceva nessuno. Viveva nella monofamiliare appresso all’ospedale, dove prestava servizio come giardiniere. 

Le due autovetture s’accodarono a passo d’uomo. Anche se ormai si erano fatte le sei, sulla provinciale c’era una nebbia untuosa che non aveva alcuna intenzione di diradare, il cielo era tanto basso che alle nuvole ci si passava attraverso per uscirne fradici di condensa. Il tratto che avevano scelto era a un paio di chilometri dal bacino artificiale. Argilloso e grigio, in quella giornata di intemperie, il greto del fiume, ma anche le piante e gli alberi che contornavano il corso d’acqua, erano coperti da un velo uniforme di polvere. Ricordava la cristalliera in radica del salotto dove Acqua Velva riceveva gli ospiti. Mariza, la badante incaricata di occuparsi di sua madre, lamentava che non rientrava nei suoi compiti lucidare i mobili. Acqua Velva, Ludovico Ansaldi, di professione contabile, ‘signorino’ come si vociferava nella scala, aveva altri interessi. Al Pigmeo e al Silvi delle preferenze di Acqua Velva poco importava, delle chiacchiere ne facevano a meno, il loro sodalizio si reggeva sulla pesca. La madre di Ludovico si era spenta da sola, le era preso un infarto alla vista di Mariza accoltellata da suo figlio. Acqua Velva aveva lasciato tutto com’era, nella convinzione di simulare un furto. Dei gioielli di sua madre aveva piene le tasche e tintinnava a ogni passo. Non aveva intenzione di rivenderli, piuttosto li avrebbe buttati al fiume.

«Tutto a posto?» ghignò.

«Si respira» rispose il Silvi tirando su col naso.

«Che era ora» aggiunse il Pigmeo issandosi sulle punte dei piedi.

S’accomodarono su un tronco dilavato e armarono le canne. L’acqua scorreva animosa crocchiando sui sassi. Il Silvi strappò un rametto di finocchio e lo strinse tra i denti. 

«Fideiussione di verme chiedo» disse il Pigmeo tendendo il filo. 

«Tu che non li hai mai, ci fosse volta.» 

Polemico Acqua Velva gli allungò la scatolina con le esche. 

«Grazie te.»

Il Silvi si alzò in piedi e iniziò a camminare avanti e indietro.

«Fermo che scappano» disse il Pigmeo mostrando i denti.

«Cosa vuoi che scappi?» Il Silvi poco sopportava le interferenze. «Siamo venuti qui per altro, mi pare. Pesca a parte, dico. Madonnacara, ma che è?» disse sgranchendosi gli occhi. 

La carcassa di una mucca gli sfilò davanti. Le orbite vuote, il cranio sfasciato, le costole affilate come lame che spingevano sul ventre, così gonfio che pareva sul punto di scoppiare. 

«Ve’ che roba» disse Acqua Velva infilzando un bigattino all’amo.

«Roba da fine del mondo». 

Il Silvi ancora non trovava pace, e camminava avanti e indietro, nonostante avesse già piazzato lo sgabello a ridosso di un albero macilento.

«Sarà capitato di che cosa all’Imbriaco?» chiese Acqua Velva scrollandosi di dosso il giaccone e mostrando il caccia e pesca color coloniale, le tasche zeppe di mosche e vermi colorati.

«Pare che vai al carnevale di Rio combinato così» gli rise in faccia il Pigmeo, una mano sulla pancia, l’altra a sventolare l’aria.

«Pensa a come sei combinato tu». Acqua Velva gli lanciò un’occhiata schifata. «Le bestie dell’Imbriaco stanno per di là?» aggiunse poi, unito a un gesto vago e lontano.

A Maria Elena erano toccate le forbici. Il Pigmeo non aveva mai avuto il coraggio di confessarlo ai suoi amici, ma quando sua sorella decideva di arrostire una faraona, un pollo, un tacchino, dopo aver tirato il collo alle galline e cavato il fegato all’oca, farcito piccioni e affini, fatto salvo per le quaglie e la cacciagione di piccolo taglio, tirava fuori il trinciapollo. «Mi ci fai secco, prima o poi» diceva e abbandonava la cucina. Oltre a non sopportare di vederla armeggiare con le lame, ne detestava il rumore, l’impatto con ossa e cartilagini. Scrocchiare. Frantumare. 

Mentre il cielo s’ingrugniva, passò davanti ai loro occhi la testa di un cavallo, seguita dalla statua della buonanima del Torelli, l’eroe sportivo della provincia di Servadio, nella mano un giavellotto, il busto mozzicato e niente più gambe, che s’unirono in processione qualche minuto più in là, insieme al piedistallo. 

«Non mi piace niente» disse il Pigmeo.

«Sarà esondato il Frongia?» chiese il Silvi cercando di raccapezzarsi. 

«Facile il Galaveria, per via del bacino idroelettrico». 

«Tiene o è uno dei tuoi?» chiese il Pigmeo.

«Cosa?» rispose il Silvi.

«Il filo. Ve’ che tira e come».

Una Cinquecento attraversò il corso del fiume sferragliando, l’acqua era montata al punto che lo sgabello del Silvi quasi galleggiava insieme al tronco. 

«Dite che andiamo? Si tela?» provò a dire il Pigmeo con una punta d’allarme.

«Qui si resta, come s’era detto» chiuse il discorso il Silvi prima di risalire il declivio. Arrivato che era in cima, con le braccia conserte e lo sguardo feroce, allungò il mento.

«Uguale uguale al Testa di morto» disse il Pigmeo mentre lo inquadrava tra le dita manco dovesse immortalarlo in uno scatto.

«Bada a come parli, non si scherza su certe cose» lo freddò il Silvi. 

«Potremmo rifugiarci nel bolide» azzardò Acqua Velva. «Ho ancora qualche mignon e qui mi pare che oggi non sia giornata».

«E sia» acconsentì il Silvi controvoglia. 

Raccolsero il poco che restava dell’attrezzatura da pesca e voltarono le spalle al fiume. 

In macchina, l’aria s’addensò di fumo, fiato e vapori, i finestrini erano chiusi, di aperto rimaneva solo il deflettore. «Ho una Vecchia Romagna e due Caffè Borghetti. Preferenze?»

«Di’ un po’, Rosso antico ne hai?»

«Ci senti te?» rispose con risentimento Acqua Velva. 

Il Pigmeo guardò il Silvi. «A me garba Caffè Borghetti» disse risoluto.

«Vecchia Romagna prendo io» disse Acqua Velva strappandogli quasi la bottiglietta di mano.

Il Pigmeo tirò via veloce la capsula e si portò il vetro alla bocca. «A noi!» disse.

Avevano fatto appena in tempo a rifugiarsi nell’abitacolo, ora la pioggia veniva giù rabbiosa, s’era incupito di brutto, era calata una saracinesca, una colata d’asfalto senza mezzeria. Nonostante la nebbia avesse ceduto il passo, le nuvole s’erano fatte fuliggine, l’aria carbone. Scaracchiavano i tuoni, si faceva dappresso il temporale rombando sordo. Quando un fulmine sventrò il cielo, per un istante si fece giorno, l’aria elettrica che drizzava i capelli, i tergicristalli che non riuscivano ad arginare la pioggia battente. Arrivò la grandine, si rovesciò violenta squassando il tettuccio della macchina, la carrozzeria vessata dal vento.

«Dico che meglio che ce ne andiamo» azzardò il Pigmeo dal sedile di dietro, già immaginando la reazione del Silvi. 

Acqua Velva pasteggiò il liquore, aprì la bocca, tirò fuori la lingua ma rimase zitto. A sorpresa, il Silvi non si degnò di rispondere, gli occhi defilati lontano, al limitare della radura. Si erano date convegno lì, sfiancate, sporche di terra, le braccia di rami, le gambe di tronchi senza radice. La testa della Franca spuntava dalla custodia della tintoria, che indossava come un impermeabile per proteggersi dalla furia dell’acqua, la Mariza, lorda di sangue, s’accollava la madre di Acqua Velva, apriva la processione Maria Elena, il trinciapollo alzato a mo’ d’insegna. Si intravedevano appena tra il tlic tlac delle spazzole dei tergicristalli e la pioggia ritmata. Intanto la collera del fiume aveva fracassato gli argini e, tracimate l’acqua e la fanga avevano superato gli pneumatici dell’850, che ora galleggiava nel bel mezzo dello spiazzo dilavato.

«Metti in moto. Ora» ordinò il Silvi mantenendosi saldo alla maniglia. Il Pigmeo dal retrovisore gli lesse la paura nelle sclere degli occhi, bianche come uova sode, il naso screziato di capillari, le rughe inspessite come il cordolo dell’autostrada. 

Acqua Velva provò la chiave, il motore girò a vuoto, due colpi di tosse secca e più niente. 

«Cos’è là?» disse il Pigmeo mezzo strozzato. 

«Ecco che arriva il conto» disse il Silvi come tornando in sé.

«Non parte» sfiatò Acqua Velva e si portò una mano alla gola. 

L’850 fu trascinata via, sospinta in avanti.

«Si va lo stesso» provò a scherzare il Pigmeo aggrappandosi ai sedili. 

«Chissà dove» gli fece eco il Silvi lasciando cadere il mignon di Caffè Borghetti.

S’erano fatte le dieci quando l’aria s’era ammorbidita lasciando spazio a un chiarore di calce. A fondo valle, l’850 s’era sfasciata contro il muro della stalla del Gagliani, le poche bestie sopravvissute s’aggiravano pigre intorno al carapace divelto. All’interno, il Silvi e Acqua Velva parevano assopiti, in mezzo al torace stretto de Pigmeo intanto s’allargava una chiazza brunita. 

No Comments

Post A Comment