
30 Mag Il padre perduto. Una lettura di “Perduto è questo mare” di Elisabetta Rasy
di Gianna Cannì
Il memoir è la forma di autobiografia che meglio di qualunque altra si avvicina all’idea che la grande Karen Blixen aveva dello storytelling. Nel saggio di Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, la filosofa riporta e commenta la storia, contenuta ne La mia Africa di Karen Blixen, dell’uomo che, per chiudere di notte alcune falle nel terreno, da cui fuoriuscivano acqua e pesci, disegnò con i suoi passi senza saperlo, sul terreno, una cicogna. Blixen si chiede: “Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò o altri vedranno una cicogna?” e Cavarero commenta che il disegno di una vita “non è ciò che guida fin dall’inizio il percorso di una vita, bensì ciò che tale vita si lascia dietro…”.
Il memoir è la vista aerea di una vita, aerea perché abbraccia in uno sguardo solo tempi e luoghi diversi, personaggi distanti; e non si affida alla mera sequenzialità temporale o causale, ma seleziona, ricompone, dà senso, vede anche ciò che non è prevedibile o previsto.
Il libro di Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare (Rizzoli, 2025), è questo viaggio della vista che abbraccia un intero paesaggio. Non è una ricerca del tempo perduto, non è una rievocazione.
Ci sono tre “personaggi”, che sono anche tre temi e tre fili narrativi: il padre Lello, lo scrittore Raffaele La Capria e l’elemento comune ai due – che li unisce come due sponde destinate a non incontrarsi – il mare di Napoli. Napoli è sia la città di mare che con la sua favola persuasiva induce una perenne nostalgia in chi sceglie di lasciarla, sia la città corrotta che hanno raccontato Rosi e La Capria, l’altra faccia della ricostruzione del secondo dopoguerra.
Il libro racconta la perdita e il ritrovamento di tutti e tre, nella scrittura. Si apre con la morte di Raffaele La Capria, di cui a ritroso poi si ricostruisce l’amicizia e di cui si fa un ritratto vivo e ricco di sfumature delicate: la prima parola è però mare. Si chiude con un tuffo fatto da Elisabetta bambina sotto lo sguardo del padre, quello che lo scrittore napoletano considera il movimento perfetto del corpo, il gesto leggero di muoversi nell’aria per poi immergersi nell’acqua: “Precipitare nell’acqua fino in fondo, il chiarore mentre risalgo, l’aria calda fuori, il cielo e il mare di un unico colore, lo sguardo soddisfatto di mio padre e i suoi occhi sempre più verdi nella piena luce: tutto è perfetto come se la beatitudine di quella giornata non potesse mai finire, uno di quei momenti in cui sembra che il domani non debba mai arrivare”. Tra questi due limiti marini si aggira la figura del padre della scrittrice, che non è possibile stringere in un abbraccio di carne e in questo simile alle ombre dell’Ade pagano, ma con uno spessore psicologico – dato da una fragilità che tutti conosciamo fin troppo bene – che lo rende vicino e corporeo, nella sua bellezza progressivamente appannata dal sonno, nella sua esistenza che via via si svuota di persone e di senso, nella sua sempre più dolorosa incapacità di decifrare la realtà.
I padri del libro sono in realtà tanti e quello della scrittrice compare controluce, quasi disegnato con inchiostro simpatico, man mano che sfilano (e si intrecciano con straordinaria maestria, illuminandosi a vicenda) Anchise, il padre di Enea perduto e ritrovato in un abbraccio impossibile (Ter conatus ibi collo dare bracchia circum;/ter frustra comprensa manus effugit imago,/par levibus ventis volucrique simillima somno); il padre di Kafka, patriarca enigmatico che governa disordinatamente il mondo dalla sua poltrona e destinatario di una lettera incandescente che hanno letto tutti tranne lui; il padre di La Capria, destinatario pure lui di una lettera letteraria, la terza dell’Amorosa inchiesta, che rappresenta un congedo e l’entrata, come quando Enea riemerge dall’Ade, nel regno senza padri (lettera di cui Rasy sottolinea “il puntiglio con cui ripercorre le imperfezioni – così le definisce – della vita paterna, di cui va alla ricerca simile a un detective che affronta un cold case”); Raffaele La Capria stesso, in veste di padre della figlia avuta dal primo matrimonio, non rassegnato al reciproco abbandono, che a lei scrive la seconda lettera dell’Amorosa inchiesta. La domanda che accomuna le storie è: chi abbandona chi? e ancora, più forte, la domanda che La Capria rivolge a Rasy in uno dei loro ultimi incontri: ma tu chi hai amato di più nella vita? La risposta ad entrambe non può che essere verticale e coincidere con l’intero disegno di un’esistenza, come appare alla luce della scrittura.
In che rapporto sono – nel memoir di Elisabetta Rasy – Raffaele La Capria e il padre Lello? L’amico non ha preso il posto del padre né l’affetto che unisce Rasy a lui è di tipo filiale: “Quanto all’amicizia tra me e Raffaele, in lui non c’era nulla di paterno nei miei confronti, né di filiale da parte mia nei suoi. Semmai un punto cavo in comune dove, come nelle favole, si nascondeva qualcosa di essenziale”. Eppure il successo dell’uno richiama il fallimento dell’altro, così come la vitalità le sabbie mobili della depressione. Il padre di Elisabetta Rasy – finita la guerra, dismessa la divisa da aviatore del regime, morto l’amore della moglie verso di lui – cade in una sorta di incantesimo, si addormenta, rifiuta la luce del giorno. Da questa casa immersa nel buio, regno di ombre, da cui già era fuggita da bambina insieme alla madre, Elisabetta adolescente fugge una seconda volta, abbandonando chi l’aveva abbandonata. Un terzo abbandono è forse l’ultimo saluto in ospedale: di nuovo, chi abbandona chi?
Anni dopo la morte del padre, Rasy conosce per lavoro La Capria. Questo primo incontro era stato anticipato da quello con il film da lui sceneggiato: Le mani sopra la città, l’anno della seconda fuga da Napoli. Inizia così il loro rapporto di amicizia, che si declina in una serie infinita di lunghe telefonate quotidiane per tutti gli anni a venire, in incontri nelle case dello scrittore, insieme alla moglie Ilaria Occhini. L’attrice peraltro emerge dalle pagine come bellissima figura di donna bellissima, che questo memoir mostra nel suo rapporto libero con la vecchiaia e con la malattia, nel suo amore per gli animali: meriterebbe un articolo tutto dedicato a lei. I ritratti dei due uomini scorrono paralleli e, al di là delle differenze che paradossalmente fanno emergere i ricordi (per dissociazione, diffrazione più che per associazione), entrambi portano a compimento la ricostruzione di una vita.
Tra le parole di questo libro complesso e sospeso si aggira Enea, perché è “il funzionario del destino” e perché, come ogni uomo antico, ha l’obbligo di privarci dell’illusione di poter spiegare i comportamenti umani e far tornare i conti, ci ricorda insomma che il destino di un uomo sta in una catena di colpe e responsabilità, è sovraindividuale. E se il libro di Rasy racconta il regno senza padri (quel regno “dove bisogna cavarsela da soli anche se sulle spalle si porta un vuoto pesante quanto una pietra tombale, o esplosivo quanto un infarto”), un altro tema importante – misteriosamente intrecciato al primo – è quello del nostro mondo senza romanzi e senza destino. Scrive: “…Raffaele sentiva che la grande stagione del romanzo era finita o stava finendo proprio nel momento in cui era sbocciato in lui l’amore per la scrittura. La letteratura, diceva, aveva dato forma al suo rapporto con la vita, ma intanto sentiva che l’epoca del romanzo era finita. Non quella dei libri che sulla copertina o nel risvolto vengono definiti romanzi: credo che pensasse a qualche cosa di diverso, cioè al romanzo come forma simbolica, e dunque che scrivere un romanzo non vuol dire solo raccontare una storia, ma creare una rete in cui afferrare la realtà, e che un romanziere non è semplicemente un narratore di storie, e che a una storia non basta avere una trama o dei personaggi per essere un romanzo”.
Il nostro mondo è quello della condanna al presente autoconclusivo, che esaurisce in sé stesso senso e memoria, un presente dove non hanno spazio il Destino e la Fortuna. Per far emergere il Destino occorre intersecare, comporre, occorre lo storytelling in cui era maestra Karen Blixen, perché la linearità del tempo ordinario, come sanno bene i lettori di romanzi, rende poca giustizia alla complessità della vita. “Per fortuna c’era una sacca di resistenza dove Destino e Fortuna risplendevano come cardini luminosi dell’esistenza. Quella sacca erano i romanzi. Dai romanzi ho imparato che cos’è il destino e quale significato dare alla parola fortuna. Perché non esistono romanzi in cui il destino e la fortuna non abbiano un ruolo, fosse pure solo un ruolo verbale, una certa concatenazione, fortunata o destinata, delle parole”. La cicogna del destino.
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