Agli orli della notte di Stefania La Via

di Anna Rita Merico

 

Agli orli della notte. Una silloge calda di intenti e fresca nelle sue leggerezze, capaci di nominare sapientemente il dolore. È dolore di morte guardato senza sconto alcuno. È morte da attraversare così come, per gustare un sorso di vino, è necessario che quello zibibbo abbia attraversato un collo di bottiglia.

E’in quell’attraversamento esistenziale che si annida un’autentica possibilità evolutiva. Giungere al dato e non attraversarlo implica regressione rispetto al proprio processo evolutivo. Attraversare il dato, venirne fuori, renderlo dato narrabile e non più asfissiato dalla sola esperienza soggettiva, indica capacità di saperi che hanno a che fare con le leggi della vita.

Stefania La Via ci dona, in versi, questo tratto del suo andare, indicandoci l’importanza vitale del saper trasmutare il dolore in arte di parola.

 

A.R.M.: Agli Orli della notte[1] sostano tutte le situazioni liminari. Passaggi, elaborazioni, ossessioni, visioni di frette o di stasi esistenziali, rimestii di cambiamento, accese attese, slabbramenti di memorie, unghiate di dolore… L’orlo della notte è luogo di tramestio, qualcosa giunge…. Nel tuo orlo/Orli della notte sfilano tutte queste dimensioni ed altre ancora. Una silloge delicatamente monotematica, un progetto di attraversamento di emozioni, ricordi, carezze, incontri esistenziali con se stessa, un Orlo casa di timori ma, anche, di albe altre… Nasce questa silloge: tratteggiane la genesi per la rivista Morel.

S.L.V.: Dici bene, questa raccolta, che potrebbe essere letta come un poemetto, è l’attraversamento di una soglia. È nata in seguito alla morte di Sabrina, una mia cara amica, una sorella d’anima che in alcuni versi definisco “radice sempre riconoscibile / nell’intrico delle relazioni / filo cucito alla trama del mio vivere”. La morte di una persona cara cambia il nostro modo di stare al mondo, modifica il nostro punto di equilibrio, i nostri riferimenti nella geografia del vivere. Quando qualcuno muore di solito diciamo che è scomparso, io ho riflettuto molto su questo concetto. La scomparsa dice di una perdita irreparabile, chi abbiamo amato si allontana in regioni di silenzio inaccessibile, da cui è impossibile richiamarlo. Io non volevo questo e, possedendo la capacità di usare la parola della poesia, ho deciso di servirmene per richiamare alla vita, perché la poesia è la morte della morte e l’amore che abbiamo provato è il senso di tutto, non si disperde, semplicemente muta forma. “Non per trattenerti ma per non perderti”, scrivo. Ed è in questi versi che si nasconde il senso di questa raccolta. La parola della poesia può trattenere la traccia di un’esistenza, i minuti dettagli di una vita, il suo respiro, il suo profumo e farli risuonare nel presente. Nel presente eterno di un verso che si rinnova ad ogni lettura. Partendo dall’intimità di un dolore privato ho voluto raccontare la vita dalla prospettiva della perdita, trasformando il particolare in universale.

Ho cercato di dare corpo e voce a quella che è stata l’essenza di chi ho molto amato e non c’era più, sognando ad ogni nuovo giorno l’amnesia del risveglio, attraversando il deserto dell’assenza, il silenzio “terribile, ostinato”, la notte sino ai suoi orli, quando il buio cede il posto al chiarore dell’alba.  Unica guida i ricordi, “spaiati scampoli / di stoffa / i soli capaci di reggere la trama”, di fare argine. C’è voluto coraggio ad attraversare il dolore, a guardare negli occhi la morte, a dare un nome e un posto alle cose perché nulla si perdesse. Ho tentato di mantenere un’unica nota di bordone declinando il mio canto di resistenza, che attraversa le stagioni, i sentimenti, le emozioni piccole e grandi che la vita sa donare.

 

Una collana di legno

di un turchese acceso

è ciò ce di concreto

mi resta di te.

Troppo poco, eppure,

la indosso come un portafortuna

ne sfioro la materica concretezza

di oggetto.

Quando non distingueremo più

Tra naturale e artificiale

Mi ricorderà che eri reale,

che esistevi.[2]

 

A.R.M.: Oggetti come soglia attraverso cui ampliare ricordo e vita trascorsa nel nido di un affetto e di un sentire. Indugiare su di un oggetto e farne luogo di sosta. Utilizzi questa modalità come capacità di fare pieno dinanzi ad un vuoto. Un maglione, l’abitazione, una collana, cercare-trovare come si fa tra gli oggetti in un negozio dell’usato.[3] Anche un nome diviene un oggetto da rivoltolare lentamente in bocca come una gelée zuccherosa che rilascia sentori. Ogni oggetto reale o irreale si trasforma in simbolo che trattiene. La maestria del dolore pacato che non vuole lasciare ma che sa di doverlo fare, Un filo di seta elasticizzato teso tra assenza e presenza, tra gesto voluto di tensione verso l’altra e aborto di movimento. Eppure movimento arcaico di trattenimento e cura della ferita. Un volere ma, anche, un sapere spezzettare la dose di ciò che potrebbe far deflagrare l’anima. Un universo di antico canto femminile si erge intorno a questo gesto che tu affronti attraverso e dentro la scrittura. È un dirne, il tuo, altalenando la luce della chiarezza per l’amore portato ma, anche, l’ombra che -pudica- trattiene…

 

S.L.V.: La dinamica luce-ombra, come hai ben notato, attraversa tutta la raccolta, sin dal titolo. La prima poesia ha un’ambientazione notturna, l’ultima racconta del sorgere dell’alba.

I riferimenti alla luce sono tanti, dalle lucine intermittenti dell’albero di Natale, al “piccolo faro che non spengo”, ossia la lampada sul comodino che è poi metafora della poesia che ha guidato questo percorso di attraversamento, la luce che invade d’improvviso una stanza, la luminosità dello sguardo della mia amica. Tutte queste piccole luci diradano la notte che è simbolo del lutto, della sofferenza. Il canto si snoda come in un antico tropo medievale, arricchendosi di nuovi inserti, di inedite prospettive. È canto di sorellanza, ricerca di una parola che esca dal buio e si dia alla luce.

A un certo punto il tempo del dolore si placa, pur non finendo, iniziamo a percepire come, dalle nostre ferite, dobbiamo lasciar scaturire qualcosa di produttivo. Qualcuno ha detto che poesia è abitare la ferita, e io credo sia proprio così. Questo piccolo libro è come una sorta di scatola, un deposito perimetrato in cui riporre gli esiti del lutto in attesa che si trasformino, che trovino una nuova versione condivisibile. Mondo esteriore e mondo interiore si compenetrano, così come, in fondo, la vita e la morte sono una dentro l’altra. La poesia ci insegna a vedere oltre ciò che lo sguardo percepisce, è questa la sua grande e difficile lezione.

 

A.R.M.: Le minuzie del dirsi e dell’impastarsi in conoscenza e scambio umano. Una leggerezza di pennellate intorno e dentro il farsi di una vicinanza che ha attraversato un’intera esistenza. Il patriarcato, con i suoi valori, con le sue narrazioni, non ci ha insegnato nulla del valore della relazioni tra donne. La relazione tra donne è l’imprevisto all’interno di questo sistema storicamente dato. Accade, pertanto, che attraversare il luogo di una relazione autentica con una donna diventi momento per inventare parole, apprendere modi, svelare tempi di un andare mai scontato. Tu, Stefania, tratteggi questa esperienza con una meravigliosa sapienza…

 

A ritmo intermittente si accendono

speranze, si spengono illusioni

nella notte che scalza l’imbrunire.

Immobili le figure nel presepe

Al gioco delle luci,

mentre lontano tu muori

tu, che sei stata la mia infanzia,

dolce sorella nella gioia

amica discreta, radice sempre riconoscibile

nell’intrico delle relazioni

filo cucito alla trama del mio vivere.

Il mio cuore a distanza risuona

col tuo, che perde il passo

canto con te che non hai più parole

nenie d’amore

e che dolore non sentire più

la tua voce, fino a dimenticarla forse, un giorno.

Un soffio gelido raggela

il tepore della casa, le mie mani

e le tue, già scolorate

le lunghe dita

fatte di cristallo.

Ho tanto freddo, amica mia,

vorrei guardare dentro la tua luce

per scaldarmi.[4]

 

S.L.V.: Come dicevo, questo libro è un dono d’amore. Ho voluto rendere eterna la “mia” Sabrina con le parole della poesia, perché in lei ciascuno ritrovasse una persona cara e perduta. È nato prepotentemente mentre stavo lavorando ad un altro progetto, ho dovuto lasciar spazio alla sua urgenza. Finché ci sarà un canto d’amore e di amicizia non sarà la fine. La poesia mi ha preso per mano mentre rischiavo di perdermi e spero sinceramente che questa mia silloge possa fare bene a molti di coloro che la terranno tra le mani. Con i miei versi ho cercato di realizzare quello che scrisse Ezra Pound: “Quello che veramente ami non ti sarà strappato. Quello che veramente ami sarà la tua eredità”, un messaggio di speranza per tutti, la forza della vita che ricomincia da tutto e nonostante tutto, ricomincia daccapo e ha il potere di sconfiggere la morte.

 

A.R.M.: Il tessuto della memoria che diviene e tesse corpo di presenza dell’altra. Ti intrattieni a lungo in questa stanza mostrandone angoli, luoghi nascosti, svelamenti chiaroscurali che sono un dialogo con il silenzio, con i luoghi, con il roseo del tempo, con un pianoforte o con un polline di fiori. È  un universo che tu muovi, in scrittura, intorno al gocciolare delle forme che scorrono fuori ad una fotografia o ad un vento che tratteggia abisso di mancanze. È, per te, tutto un toccare con gli occhi. Un toccare capace di nutrire il passaggio di elaborazione dalla vita alla dipartita, dall’essere al non essere. Elaborare il lutto e non restare impigliate nel baratro della mancanza. Molte, tante le donne che sono state incapaci di ricucire questo strappo restandone risucchiate. Noi donne abbiamo appreso, per dati legati alla biologia, gli anfratti della fusionalità. La fusionalità è stato un universo in cui siamo rimaste attaccate per secoli. Sapere, oggi, della sacra misura che separa il sé dall’altra e sapere ri-dare sé all’altra e sé a sé rappresenta un passaggio epocale intono al quale riflettere molto dispiegando consapevolezze altre.

 

Vorrei sbocciarti in petto

all’improvviso

come la rosa

ieri ancora chiusa

che oggi esplode

il suo carminio,

ridarti carne e sangue

col mio rosso

ma posso offrirti soltanto

mazzolini pallidi di sillabe

spontanee raccolte ai margini

del pianto. [5]

 

S.L.V.: È molto bello e profondamente vero ciò che dici. L’essere amiche implica anche mantenere una soglia di segreto e di distanza che è margine di libertà. “Nel nostro raccontarci / o nel tacere / molto sapevamo l’una dell’altra”. Molto, non tutto. Il legame per quanto forte non è simbiotico, non è fusione totale ma valorizzazione delle diversità che ci fanno esseri unici. La vita di chi abbiamo amato, quando questi non c’è più si fa miracolo disabitato. E allora avvertiamo l’urgenza di ripopolare quello spazio vuoto di ricordi, di minute cose che temiamo si perdano per sempre.

Tante sono le cose che ho narrato nei miei versi e tantissime quelle che non sono emerse, perché la memoria funziona come un setaccio a maglie strette, nelle spire del suo tempo circolare trattiene soltanto i dettagli che sporgono in primo piano, e spesso sono  dettagli apparentemente secondari ad assumere un valore fondamentale, molto più di altri che apparentemente potevano sembrare più importanti.

Sono quelle le piccole cose che non mentono e che dicono una vita, la mente li fotografa e li ripone in un cassetto da cui emergono con inaudita forza vitale.

Mi colpisce quando dici che per me è tutto un toccare con gli occhi, in effetti è proprio così. La mia è una poesia molto visiva, fatta di immagini, frammenti di realtà che si sono sedimentati e poi emergono nei versi, anche dettagli minimi assumono un valore metaforico. Il poeta è come un segugio che segue una traccia, poi la raccoglie e la rende viva.

 

A.R.M.: Nel deserto della perdita, nel luogo senza paesaggio delle presenze in cui la perdita lascia, la risalita ha un nome, una clessidra che si rivolta. Quel voler essere riconosciuta pur se dall’interno di un deserto senza oasi, pur se dal di dentro di una carcassa di ossa sbriciolate. Un inizio che guarda al giorno successivo, al tempo che cautamente chiede varco e desiderio di vita, ancora…

 

Si chiudono a sera

dolcemente come gelsomini

i dolori segreti

e il passante distratto che li sfiora

ne avverte il sentore

e con un fremito si volge,

sentendosi

riconosciuto.[6]

 

S.L.V.: Non si tratta di cercare il dolore ma di non sottrarvisi. Poiein è gesto che crea e la poesia, come l’amore, è un’azione. In questo caso l’azione di fissare lo sguardo sulla sofferenza per comprenderla e per comprendersi, abitare il vuoto per far spazio alla parola. È affinare lo sguardo per renderlo capace di cogliere i segni di una permanenza. Come scrive Simona Lo Iacono nella sua bellissima postfazione, ho affidato alla poesia “la possibilità di un risarcimento, ma anche di una consacrazione al mistero delle cose: farle nascere, farle rivivere, farle resistere”.

 

A.R.M.: Il tempo. Congelamento del tempo. L’orologio diviene un orologio interiore che oscilla tra scorrimento d’ore e fissità. All’interno dell’orologio ricreato nell’anima s’avvicenda la promessa fatta del restare. Promessa che gocciola nuove possibilità e responsabilità della parola data. Nello spazio della promessa avviene la tessitura di ciò che rende possibile presenza ed essere: l’amore. È  amore per la Vita ma è amore per sé. Quella sottile qualità del voler-si bene capace di frenare ogni deragliamento, ogni mancanza di contenimento, ogni deflagrazione verso l’abisso. Aver cura dell’iniziare-crescere-morire con la saggezza di una crona: questo il sentire che dai tuoi versi emana. Una bella connessione con il ritmo delle cose, con l’amore e con il senso dell’accettazione. Campeggia, dunque, sulla perdita la necessità della quotidiana cura…

S.L.V.: Il tempo del ricordo, della memoria, è un tempo circolare, non lineare. E per ciò stesso abbatte l’idea della progressione infinita a favore della possibilità del ritorno. Del ritorno alle cose e a se stessi, che si fa cura dello sguardo, attenzione ai minuti dettagli, capacità di soffermarsi su una parola, rallentare. La durata ha a che fare con l’attesa ma anche con la cura, con la pazienza. L’esercizio che sta alla base del fare poetico è l’attenzione, al mondo, alla vita, a se stessi nel mondo. Anche se non sappiamo mai bene cosa farcene del dolore, sentiamo che è qualcosa di fondamentale, che dobbiamo lasciare “accadere”. Forse più che accettazione la mia è un’attenzione disarmata, un porgere ascolto a domande di senso a cui tento, con i miei mezzi, di dare una risposta. La poesia abitua a riconoscere i nostri nodi profondi, non è suo compito scioglierli ma semmai mostrarceli, far vedere il punto in cui ancora può passare luce.

 

A.R.M.: Tutta la silloge si muove all’interno del recinto sacro in cui sono uscite dalla stanza le prefiche con il loro greco canto e chi resta toglie lenzuolo dagli specchi e può aprire finestra lasciando inondare tutto da una nuova luce, da un diverso spettro di lucore. Lì Aracne torna a tessere, scaccia Moire, allarga cuore, re-infonde respiro…

 

Tu sei il tuo andartene,

il primo compleanno non festeggiato

e tutti gli altri, incompleti di te

sei le domande sospese

agli orli della notte[7]

 

 

NOTE:

[1] Stefania La Via, Agli orli della notte, peQuod Ancona 2024 con postfazione di Simona Lo Iacono

[2] ivi pg 42

[3] ivi pg 48

[4] ivi pg 9

[5] ivi pg 58

[6] ivi pg 65

[7] ivi pg 44

 

No Comments

Post A Comment