
28 Mag Itaca Ebbra di Bia Cusumano, Interno Libri 2025. Una nota di lettura.
di Vincenzo Corraro
La poesia di Bia Cusumano è il gioco dell’inatteso, un canto rapsodico al banchetto del Mito. Un incantevole territorio di conquista della parola, nitida e profonda, che si eleva dall’aspra e deludente quotidianità per esprimere l’essenza di una vita che trova nel coraggio della poesia un approdo sicuro. Questo è l’architrave della ricerca di Bia Cusumano, e questo è il suo travaglio. Entrambi fanno da sfondo a Itaca Ebbra, silloge poetica da poco in libreria per i tipi di Interno Libri. Frammenti di un discorso amoroso, per citare un famoso titolo, e i concetti e i temi appartengono al catalogo di un sentimento esplorato con l’intento di rendere tracciabile l’esperienza personale, nella misura in cui quella stessa esperienza diventi storia collettiva, restituita a nozione fraterna o sublimata.
Bia Cusumano sembra leggere l’intera esistenza attraverso l’amore, il metaforico definisce un percorso che alla fine conduce alla liberazione e al disincanto, dopo aver tracciato il segno di dolorosi intenti e circoscritto, avrebbe detto Saba, la verità che giace al fondo. Leggendo quest’opera, dal fascino insolito, sembra di trovarsi in un territorio sospeso, che si muove tra oggetti e ammennicoli domestici, fra figurati luoghi d’abbandono (“le periferie del corpo”, “i chiodi nelle viscere”), attraversa ferite e negazioni, getta uno sguardo commiserevole sulle storture e l’incomunicabilità di talune relazioni (ma in certe poesie, la rabbia ferma e dolente tende a rimarcare alcune condizioni tossiche del rapporto amoroso), fino a cavare fuori, da ogni componimento, schegge di bellezza ferita, uno stato di grazia e un’armonia carnale e autentica che ai legami inconsistenti e al dolore, oppone una più alta forma di resistenza – che è ancora l’amore.
Non si nasce se non dal dolore,/ non si dona se non per mancanza,/ non si cerca l’acqua se non per l’arsura./ Sono la donna della cenere e delle mille vite.
Itaca Ebbra, per la sintassi acuta del dire e per la delicata resa delle immagini poetiche, è una silloge che inquieta, difficilmente catalogabile. La scrittura deve turbare e far riflettere, specie se intima e autobiografica. Il rapporto poi che la poesia stabilisce con il pensiero non si lascia definire in termini di trasposizione o di equivalenza: il dato assoluto prende il sopravvento, tracima il contingente, lo trasfigura nel lavoro di costruzione e di manipolazione per divenire ‘scoperta’ e traccia che s’invola nella preziosa partitura narrativa. Il valore e la sicura presa poetica di Bia Cusumano consiste in questo: muoversi tra rovi e spine, tra gabbie di temi e significati a volte scivolosi, di nuda e cocente normalità, circoscrivere un canto asfissiante, catabatico che ha poi la forza straordinaria di risalire in superficie e sferzare l’aria con dittici di grande presa emotiva, spessissimo con il gioco degli opposti (ossimori), che hanno la funzione di rimettere ordine nel codice amoroso e di creare un effetto di speculazione immediato e insieme pervasivo. Che parla a una moltitudine. D’altronde il linguaggio dell’amore è semplice; tenace e liberatorio è il suo scopo. Ecco perché, come il tronco sfibrato dei desideri umani, è a volte difficile e sfuggente e sceglie la “via comoda per tacere [vivo] / e morire nella menzogna.”
L’antropologo Ernesto De Martino ha scritto che solo chi ha un villaggio nella memoria (e nel cuore) ha la possibilità di misurarsi ed esprimersi nel mondo. E per il mondo. La bellezza della poesia di Bia Cusumano risponde a questo principio, fra l’altro così originale, così controcorrente in questi tempi imbarbariti: ha la sua terra, la sua isola nel cuore; una forma che è elemento riconoscitivo, una koinè capace di cogliere i risvolti mediterranei, arcaici di una cultura. Specie nella seconda parte della silloge, dove il tratto più classicheggiante dei contenuti e dello stile, che è lirico e cadenzato, è la battagliera conseguenza del magma della prima parte: gli elementi del mito e il tema del ritorno di Ulisse in patria (e del legame da rinsaldare con la sua Penelope) vengono declinati con linguaggio scenico, iconografico e una garbata adesione al mondo classico. I riferimenti alla tradizione greca si affacciano con sfocature precise, ben meditate, che vogliono essere un’altra strada perché Cusumano giunga al proprio universo morale e poetico. È qui chiara la tendenza a un lirismo ampio, in cui l’Io si trasfigura attorno a “un abisso di lontananza”, “all’antro scuro della nostalgia”, e mentre “Itaca brucia” e “nel cuore serba incanto e pena”, la meraviglia dell’anima danza sopra le macerie e sopra la memoria labile dello stesso Ulisse, fino a recuperare una identità avvolta dall’assoluto, da immagini-chiave le cui consonanze sono altrettante sfaccettature del discorso amoroso. Proprio come accade nei Miti, la cui cortina cerimoniale serve a ricreare un linguaggio universale e il villaggio (Itaca, l’archetipo) incatena l’individuo a un senso di appartenenza.
Compito della poesia è esplorare il desiderio che muove le nostre passioni, ricreare l’ineffabile perché i vinti – anche in amore – trovino consolazione e si convincano che il valore è tutto nell’attesa: Così è l’amore./ Possiedi solo ciò che attendi./ Ciò che appartiene,/ abita nel qui/ del non-ancora.
La dimenticanza
è il potere dell’amore.
Se scordi l’altro
dissolve d’incanto.
Perciò lascia
che ti ometta
in ogni molecola
di corpo e di sangue.
Sulla neve del pensiero
resti fuliggine d’oblio.
Che s’adagi dolente
come una cicatrice.
*
Sei tornato, o sei sempre stato qui?
Nella terra dei poeti non ci sono più fiamme
né voci di sirene.
Mentre Itaca brucia, la cospargi di petali rossi.
Nuda, danzo sulle sue macerie.
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