Letizia va alla guerra, una visione

 

 

 

 

 

 

 

di Muriel Pavoni

Osservo con interesse il lavoro di Agnese Fallongo da quando, per caso, anni fa mi è capitato di vedere “I Mezzalira”. C’è qualcosa di sorprendente nel suo modo classico e sperimentale di concepire la drammaturgia teatrale.
Nei suoi spettacoli i generi si mescolano: melodramma, thriller, farsa, commedia, vengono contaminati con elementi fiabeschi; si parte da una premessa che, in un primo momento, fa intravedere una soluzione ovvia, per poi spostare in avanti la prospettiva, in un oltre che allontana lo spettatore verso una terra sconosciuta, dove le domande sovrastano le soluzioni.
Il teatro di Fallongo e della sua compagnia è guardare il mondo da una pozzanghera, perché proprio raccontando dai margini si può toccare il nocciolo di ogni questione.
“Letizia va alla guerra” è uno spettacolo tripartito dove ogni sequenza ha per protagonista una donna che, se non è Letizia, ne porta il nome oppure ha con lei un legame particolare.
La prima Letizia è una sposa, una giovane siciliana il cui marito parte per la Grande Guerra. Letizia è una sposa felice fino alle lacrime, ma presto ci si rende conto che l’abito nuziale che indossa è l’inquietante testimonianza di uno status ibernato, che resterà tale in eterno. Letizia rimarrà infatti inchiodata al ruolo di giovane sposa, perché non diventerà mai nonna e neppure madre.
La seconda Letizia è un’orfana, poi diventata prostituta, che ha una possibilità di rivalsa grazie all’amore di un cliente, mentre la terza letizia è una suora che diventa il raccordo tra tutti i personaggi.
Ognuna delle tre protagoniste è inquadrata in un momento particolare della sua parabola discendente, ogni Letizia è una presenza fantasmatica in dialogo, vero o immaginato, con l’uomo che promette di riscattare la sua vita, che diventa un ricordo, un’ombra, una presenza che sfuma via. Ognuna la guerra, che sia la prima (di trincea) o la seconda (terribile e devastante), l’ha vissuta sulla sua pelle, l’ha combattuta come succede alle donne: in silenzio, senza medaglie, senza il riconoscimento di nessun ruolo, senza onori, con la sola certezza di soccombere, perché le guerre non riguardano solamente i soldati, riguardano tutti. “Durante la guerra i sentimenti dovrebbero essere sospesi” dice una delle tre “Letizie”, la sposa, perché in guerra i sentimenti sono destinati a essere sopraffatti. La guerra irrompe e frantuma le possibilità e la felicità che le tre avevano intravisto, degradando verso la tragedia. Tutte, infatti, per un attimo hanno creduto in uno squarcio di gioia che non è mai capitato. Tutte si aggirano, come fantasmi della storia, col loro bagaglio di delusioni e sogni infranti. Non ce l’hanno fatta, ma avrebbero voluto, forse potuto. La storia, d’altronde, è fatta di piccole persone e proprio questo riferimento al romanzo di Ortese richiama la letteratura del novecento di cui risente questo spettacolo, dove ho incontrato l’Anna di “Tutti i nostri ieri” di Ginzburg, alcuni personaggi di Rosetta Loy, sempre tesi verso una felicità irraggiungibile, la giovane ragazza di “Angelici dolori” di Ortese e certe donne di Alba De Cespedes.

Il fatto è che la guerra riguarda le donne in prima persona per cause che sono tutt’altro che trascurabili e “Letizia va alla guerra” ce lo sbatte in faccia.

L’intento era proprio quello di indagare una tematica di solito ad appannaggio maschile in una visione femminile. Si, perché si tende sempre ad associare la parola “guerra” (nel caso specifico di “Letizia” il primo e il secondo conflitto bellico) ai soldati in trincea. Ma l’esercito degli uomini non fu l’unico impegnato in battaglia. Un altro, più silente, combatté una battaglia diversa, sicuramente meno cruenta, ma ugualmente faticosa e logorante: l’esercito delle donne! Volevo dare voce a quello che, per secoli, è stato impunemente definito il “sesso debole”, ignorando la sua mistica forza vitale. Un tributo alle figure femminili del passato, a quelle sbiadite silhouettes che hanno molto amato e troppo taciuto e che, a loro modo, con invidiabile coraggio, hanno provato a cambiare almeno una virgola della storia.

Immagino un accurato lavoro di ricerca dietro queste storie, so che lo spettacolo è abbinato a un libro, me ne vuoi parlare?

Il libro di “Letizia va alla Guerra”, pubblicato da ChiPiùNeArt Edizioni per la collana “Le Nebulose”, non è altro che la stampa della pièce arricchita dalle testimonianze degli attori, del regista e di chi ha seguito il progetto fin dai suoi albori. L’edizione racchiude, quindi, lo svelamento dei racconti e dei retroscena del processo creativo che ha portato alla realizzazione dello spettacolo. Un piccolo grande traguardo di cui sono particolarmente orgogliosa.
Ad ogni modo, il mio lavoro di costruzione drammaturgica parte sempre da un’approfondita documentazione storica (nella fattispecie lettere dei soldati, lettere delle crocerossine, libri, documentari e film), per poi avvalersi, in un secondo momento, delle testimonianze reali di chi quelle esperienze e quel contesto storico lo ha esperito sulla propria pelle. La fase delle interviste, difatti, è per me fondamentale per la delineazione di una trama verosimile. In questo caso è stato illuminante parlare con reduci di guerra, mogli, ex prostitute e suore… un’esperienza umana catartica e formativa.
Romanzando dati reali, hanno preso vita tre personaggi di fantasia per le quali nulla è mai come sembra: è la vita a dettare le regole, altro che libero arbitrio! La loro forza consiste proprio nel riuscire a reggere il peso del loro destino senza mai abbrutirsi, ma anzi rimanendo “liete”, perfino “Letizie!”

La musica è parte integrante dello spettacolo, le canzoni popolari eseguite dal vivo con l’accompagnamento di Tiziano Caputo hanno il potere di trasportarci in un’epoca, e forse di mitigare la rabbia che a un certo punto, inevitabilmente, emerge. Qual è la funzione della musica nello spettacolo?

La musica, ideata appositamente per tutti gli spettacoli e suonata rigorosamente dal vivo, è parte integrante della drammaturgia e rappresenta una necessità sostanziale volta a sublimare la parola nei momenti topici del racconto, con l’intento di accompagnare lo spettatore, cullandolo, in un viaggio attraverso gli accadimenti cruciali della storia d’Italia. In sostanza, dove non arriva la parola arriva la musica. Tiziano Caputo, poi, oltre ad essere un favoloso interprete, è anche musicista polistrumentista e le sue proposte di accompagnamento sono sempre a servizio del racconto, specchio della sua grande sensibilità artistica.

Il lavoro sul dialetto è importante, vivo, mimetico, credibile, contribuisce a costruire un microcosmo poliglotta, dipinge un paese frazionato, diviso, stratificato, volendo anche multiculturale; come mai c’è questa attenzione?

Dal punto di vista linguistico la scelta del dialetto, inteso come lingua del cuore, nasce dall’esigenza di partire sempre dal suono per la costruzione dei personaggi, dando loro quella veracità indispensabile a renderli credibili sulla scena. Le tre protagoniste (la suora, la sposa e la puttana) difatti, sono tre donne del popolo con tre provenienze regionali differenti: nord, sud e centro Italia (Veneto, Sicilia e Lazio), funzionali alla narrazione di uno spaccato della nostra penisola piuttosto controverso e colorato, ma decisamente realistico. Lo scenario è sempre l’Italia verace, ruvida, quella dei nostri nonni, dei piccoli, degli ultimi e, quindi, delle donne che parlano la lingua del popolo, colorata e onomatopeica, fatta più di emozioni che di letteratura. L’Italia, inoltre, è fra i paesi con il maggior numero di dialetti al mondo e il poter attingere a questo bacino, dal sapore inconfondibilmente nostrano, costituisce, a mio avviso, un’enorme ricchezza spesso sottovalutata da una certa intellighenzia culturale.

Letizia va alla guerra presenta una situazione realistica che sfocia nella favola nera. Ripensandoci, gli spettacoli potrebbero essere addirittura due, uno è quello le cui sottotrame si collegano attraverso un andamento circolare che porta a un finale catartico; l’altro (più cupo) sembra terminare prima, dopo la seconda storia e lascia lo spettatore in bilico su un precipizio senza possibilità di consolazione, perché per un attimo, dopo quella pausa, abbiamo tutti creduto che lì sarebbe finito tutto, (effetto suggerito anche dalla scenografia che presenta due grandi cornici che andranno a contenere altrettante presenze, come in un album di ricordi, mentre le cornici sono tre, ma una resta nascosta fino alla fine). Mi chiedo, come mai questa scelta?

Grazie per la domanda acuta, frutto di un’attenta osservazione e di una spiccata sensibilità. Difatti, il terzo e ultimo capitolo dello spettacolo, quello della suora, è stato aggiunto in un secondo momento. Avevo sempre avuto l’intento e il proposito, condiviso col regista Adriano Evangelisti, di raccontare tre donne, tre facce dell’essere femmina (vergine, puttana e santa) eppure, in un primo tempo, il binomio era sembrato la soluzione più facile, frutto di un primo studio con due soli capitoli distinti e autoportanti: la sposa e la puttana. Successivamente, un po’ per rendere più facile la cir-cuitazione nazionale di un testo breve, un po’ per onorare l’intento iniziale, ho deciso di correre il rischio di “allungarlo” con l’aggiunta della parabola della suora che, a tutti gli effetti, fa da trait d’union tra i destini di queste donne così lontane, eppure così vicine. Il testo ha avuto, quindi, una lunga gestazione, ma, sicuramente, nella versione del trittico ha raggiunto la sua forma più completa e funzionale.
La scelta delle cornici è parte integrante del disegno registico di Evangelisti, con lo scopo di fermare il tempo e di immortalarlo in immaginarie ed indelebili fotografie all’interno di una messa in scena essenziale, che si avvale di scarni oggetti d’uso quotidiano, muti testimoni di quello slan¬cio vitale che è sempre più forte di qualsiasi guerra e, idealmente, anche della morte. La cornice della suora è l’unica che resta “nascosta”, seppur visibile, fino alla fine perché è l’unica ad avere una funzione specifica, l’unica che racconta, a tutti gli effetti, un luogo: il convento. In linea con il personaggio della suora, anche la sua cornice assume un ruolo di “svelamento” finale e di risoluzione dell’intreccio (come sottolinea la grata del confessionale che presenta dinnanzi).

 

 

 

 

 

 

Sembra che il lavoro sull’ibridazione dei generi ti caratterizzi, mi piace il modo in cui ribalti le premesse che creano aspettative differenti rispetto alle conseguenze, mi piace, come pubblico, essere continuamente spiazzata e dover rivedere le mie posizioni di volta in volta. Qual è il processo che ti porta a questo e risultato?

Ho sempre pensato che l’ironia sia la più alta forma d’intelligenza e che la risata sia il veicolo più potente per raccontare il dramma. La vita, d’altronde, è tragicomica anche nelle sue sfaccettature più cupe. Trovare l’armonia fra tragedia e commedia è la prima sfida che mi pongo prima di iniziare a scrivere. È un dosaggio delicato, continuamente in bilico tra leggerezza e pathos. Cercare di spiazzare sempre lo spettatore e di offrirgli un punto di vista inedito è, invece, il mio secondo proponimento, necessario per la costruzione di personaggi complessi e trasversali, ricchi di contraddizioni e di fragilità, un po’ come nella vita reale.
Cerco, nel mio piccolo, di fare il teatro che mi piacerebbe vedere, in cui ci si diverte e ci si commuove, provando a sublimare il reale con un pizzico di poesia. Inoltre, detto fra noi, non mi sono mai piaciute le etichette; al contrario, prediligo la commistione dei generi e delle discipline. Un po’ come accade in cucina, pur essendo una pessima cuoca, credo che il segreto per la buona riuscita di un piatto risieda sempre nella qualità della materia prima (i personaggi) e nel dosaggio degli ingredienti (gli accadimenti), oltre ad un sano pizzico di follia e ad una spolverata di sentimento.

Quali sono i tuoi maestri?
Le persone. I miei maestri sono sicuramente le persone, la gente che intervisto. Negli anni ho imparato che, per essere una buona drammaturga e, successivamente, una valida interprete, non dovevo mai e dico mai commettere l’errore di sottovalutare le persone. A volte, le storie migliori si celavano proprio fra le pieghe dei tessuti più lisi e consumati. Le balze dell’anima hanno maglie e ricami complessi, si sa, ma bisogna saperle osservare per riconoscerne la reale fattura. L’incontro umano con le persone e il continuo esercizio all’ascolto, l’allenamento all’empatia è il mio mantra. Non è sempre facile, non sempre ci riesco, ma ci provo con tutta me stessa.
Se parliamo di miti, invece, ne ho tantissimi. Un amore antico per Eduardo De Filippo, a mio parere, fra i più grandi autori del ‘900. Una passionaccia per Annibale Ruccello, inarrivabile per intensità di contenuti. E poi ancora Dario Fo, Franca Valeri per il teatro, Federico Fellini e Lina Wermuller per il cinema; tutti i più grandi maestri della commedia all’italiana, nell’accezione più alta del termine, che ci hanno resi famosi nel mondo in quanto italiani. E poi ancora Peter Brook, Neil Simon, David Mamet… come non citare Pina Bausch, maestra indiscussa e poetessa del movimento scenico.
Per quanto riguarda, invece, talenti d’oltreoceano decisamente più contemporanei non posso non citare Guillermo Arriaga, scrittore messicano per me fonte di grande ispirazione per quel che concerne l’intreccio narrativo. Spero, un giorno, di poterlo conoscere dal vivo.

Dati artistici:
ideazione e regia Adriano Evangelisti
drammaturgia Agnese Fallongo
con Agnese Fallongo e Tiziano Caputo
musica dal vivo Tiziano Caputo
coordinamento creativo Raffaele Latagliata
produzione Teatro de Gli Incamminati/deSidera
in collaborazione con ARS Creazione e Spettacolo

Spettacolo visto il 9 aprile 2025 presso il Teatro delle Moline – Bologna

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