Un altro domani – in dialogo con Cristiana Mainardi

di Ivana Margarese e Antonio Napolitano

 

Un altro domani di Cristiana Mainardi e Silvio Soldini racconta con partecipazione e senza retorica il fenomeno della violenza nei rapporti affettivi. Il film si apre con una frase di Elsa Morante, tratta da L’isola di Arturo, che con queste parole sembra cucire insieme l’intero racconto: «È un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né sé stesso, ma soltanto te».
Un altro domani, oltre a dare voce a chi la violenza l’ha subita, narra anche chi con questa violenza lavora ogni giorno per cercare di cambiare, arginare, intervenire, come polizia, magistratura, centri antiviolenza e attraverso molteplici testimonianze cerca di risalire alle radici della violenza nelle relazioni intime: «Qual è il primo seme della violenza? Come si può riconoscere? Come si può prevenire, come si può immaginare Un altro domani?».

Ivana: Ti chiedo per cominciare come sono nati il progetto di Un altro domani e la tua collaborazione con Silvio Soldini.

“Si deve tutto ad Alessandra Simone, che aveva da poco ideato il protocollo Zeus, applicato dalla Questura di Milano, dove era dirigente dell’Anticrimine. Gran parte della sua carriera è stata dedicata al contrasto della violenza di genere e alla protezione dei minori. Con questo protocollo desiderava rafforzare la funzione preventiva dell’ammonimento, invitando i soggetti autori di maltrattamento e stalking a un primo colloquio con l’equipe di Paolo Giulini che con il C.I.P.M. da decenni si occupa di violenza relazionale. Da donna illuminata qual è, sentiva che il protocollo non poteva restare solo uno strumento tecnico, seppur efficace, ma aveva bisogno di uscire dalle mura degli addetti ai lavori con un racconto più ampio. Venne da me e Lionello Cerri, nella nostra casa di produzione, Lumiére & Co. Mi colpì molto: la sua intelligenza e la sua passione. E fu evidente che la materia aveva la forza di aprire un nuovo orizzonte culturale: guardare agli uomini per cercare di proteggere ulteriormente le donne. Iniziammo a ragionarne, e dopo poco coinvolgemmo Silvio Soldini. E con l’apporto fondamentale anche di Paolo Giulini abbiamo deciso di lavorare a un film documentario. Gli uomini autori di reato erano una realtà non indagata”.

Ivana: In questa indagine sulla violenza alle donne nelle relazioni affettive ho trovato interessante lo sguardo sugli uomini maltrattanti. Ho trovato importante ascoltare le loro parole, osservarne la vulnerabilità e lo smarrimento. Mi chiedo se, come a un certo punto dice nel vostro film il criminologo Giulini, non sia fondamentale al di là del genere lavorare sin dalla scuola sulla accettazione e consapevolezza, anche condivisa, delle nostre fragilità per ridurre la violenza.

“Non mi stancherò mai di dire questo lavoro ha rappresentato per me un viaggio iniziatico e trasformativo. Mi ritenevo una donna preparata, emancipata e femminista. Partecipare per oltre un anno come osservatori al lavoro dell’équipe di Giulini ha rappresentato per me un’esperienza formativa senza eguali. Se gli stereotipi sono gabbie per le donne, lo sono anche per gli uomini. Gabbie costruite su modelli pericolosi, fin dall’asilo nido. Ho accompagnato il film in decine e decine di scuole in tutto il Paese, ancora continua ad essere proiettato e discusso. I dibattiti che ne conseguono mettono in risalto una questione fondamentale: anche i maschi hanno bisogno di poter esprimere le loro fragilità senza sentire lo stigma, senza sentirsi giudicati da una società impregnata dalla cultura di una mascolinità tossica. È evidente che se questo accade fin dall’infanzia, ci può essere speranza. Più tardi si interviene, più è difficile”.


Ivana: Cosa ti ha toccato maggiormente raccogliendo e registrando storie così drammatiche, come ad esempio quella della madre della piccola Laura uccisa dal suo stesso padre, nel realizzare questo film?

“La capacità di trasformare una vicenda privata devastante – irreparabile – in una testimonianza universale di speranza, addirittura di amore. Il coraggio. La dignità. La fiducia. La generosità. La forza di riuscire a levare lo sguardo sulla società, affinché tutto quel male intimo possa servire a mettere in salvo vite altre”.

Ivana:  Ho trovato onesto e lucido l’approccio terapeutico del professore Giulini, che dichiara schiettamente le difficoltà di un percorso di recupero negli adulti e al contempo ribadisce con fermezza l’importanza per la nostra società di scardinare certi stereotipi culturali che impediscono un’adeguata percezione dei confini tra noi e gli altri. Qual è il tuo parere sull’argomento?

“L’incisività di Paolo Giulini è straordinaria, e l’approccio criminologico è molto netto per chi osserva: crimen e logos, chiamare con il loro nome le cose, per iniziare a riconoscerle. Altrimenti non si possono affrontare. Invece viviamo in una società che si ostina a non adottare gli strumenti necessari per arginare le condizioni che inevitabilmente sostengono una cultura patriarcale, instaurando o consolidando il rischio di sopraffazione. Penso, per fare l’esempio più banale, ai percorsi di educazione sessuo affettiva. O alla gigantesca questione del gender gap. E sappiamo che la violenza economica – l’ingiustizia economica – è spesso origine di tutte le altre forme di violenza e implica di per sé una limitazione della libertà. Ed così radicata che condiziona perfino le bambine fin dall’infanzia: il dream gap è impressionante”.


Antonio: Un docufilm come Un altro domani immagino abbia richiesto un intenso lavoro di documentazione che ha preceduto preliminarmente la fase di scrittura. Come si è svolta quest’opera di raccolta dati, quali fonti ha interessato (normative, interviste preliminari, letteratura scientifica ecc.), quanto è durata e come ha contribuito a dare forma al progetto?

“Abbiamo lavorato circa tre anni a questo docufilm. Inizialmente il nostro interesse è stato soprattutto volto agli uomini, e la pandemia ha rappresentato una ulteriore fase di approfondimento in cui abbiamo partecipato al lavoro delle sedute trattamentali anche da remoto. Ma diciamo che in generale è stato necessario imparare molto, sia teoricamente sia sul campo, per esempio accanto alle operatrici e agli operatori, ma anche accanto alle forze dell’ordine. Per ogni tassello acquisito, per ogni ricerca effettuata, per ogni persona incontrata, per ogni risposta che trovavamo e che ci sembrava buona, si aprivano in realtà altre domande. Ci siamo anche fatti condurre, come accade nel cinema dal vero, dalla materia. Pur consapevoli che a un certo punto era immensa. Abbiamo girato quasi un centinaio di ore, e tuttavia al montaggio ci siamo ritrovati abbastanza fedeli al trattamento che avevamo scritto dopo tutto il lavoro preliminare. Il senso era svolgere un’indagine nelle relazioni affettive, sapendo che il male spesso si annida nell’intimità, pur volendo cercare una speranza per un domani migliore”.

Antonio: Ogni documentario assume un punto di vista riguardo al tema, ai soggetti da coinvolgere e al tipo di sguardo da adottare. Un altro domani ha un impianto classico caratterizzato da interviste frontali che raccolgono le testimonianze di vittime, carnefici, operatori sociali o del diritto, inframmezzate ai piani di case e palazzi che suggeriscono i luoghi ove “fuoricampo” si consuma la violenza. Quindi, questo tipo di forma che avete deciso di adottare è sempre stata chiara fin dall’inizio o è stata assunta dopo aver valutato anche altre soluzioni?

“Ci è stato chiaro fin dall’inizio che desideravamo restituire integra la fiducia che ci veniva accordata. Ci è stato permesso di entrare in esistenze totalmente condizionate o dedicate a questa materia delicatissima. Desideravamo che le persone protagoniste potessero riconoscersi. E sapevamo che la parola – la testimonianza – era cardine. Abbiamo costruito questo percorso, stabilendo anzitutto noi stessi con le protagoniste e i protagonisti un rapporto autentico, fatto di tante domande. E abbiamo fatto delle scelte. Per esempio, di stare in luoghi aperti con le vittime, come a volerle rappresentare libere. O di osservare le sedute trattamentali, senza interagire, ma abbiamo rinunciato a molte storie perché abbiamo voluto solo quegli uomini che hanno accettato di mostrarsi a viso scoperto: non volevamo rappresentare mostri, pixelati o con la voce distorta. E certamente le case, un’idea di Silvio, rappresentano le mura domestiche ma hanno anche un altro sottotesto ben enunciato nel film: la violenza non è una questione privata, ci riguarda tutte e tutti, è una questione di tutta la società”.


Antonio: Chi si approccia alla pratica del cinema documentario inevitabilmente finisce per confrontarsi con termini quali verità documentaria, realtà, conoscenza e testimonianza. Quali sono gli equilibri che ogni autore deve tenere in debita considerazione nel processo di rappresentazione di realtà complesse e di quali responsabilità anche etiche si sente investito, in quanto ogni osservazione del reale non è mai totalmente un’operazione neutra?

“L’oggettività totale non solo è impossibile, ma forse non è neppure interessante per il cinema. Ma provenendo dal giornalismo, sento etico restituire l’autenticità. Quella è l’ambizione. E credo sia importante e onesto non avere tesi precostituite, ma restare aperti e accoglienti ad a ogni sfumatura del racconto, anche a quelle più distanti o scomode. Fondamentale è dichiarare il codice d’ingaggio per lo spettatore. In un lavoro come questo, per me è stato fondamentale cercare di vivere appieno le esperienze delle protagoniste e dei protagonisti. Non mi vergogno di dire che ho cercato di immedesimarmi in ogni singola esistenza, e che spesso ho sentito dentro di me tutto il dolore possibile e anche tutta la speranza possibile. Però abbiamo anche cercato una cornice oggettiva, di contesto, affinché ci fossero punti di riferimento precisi per lo spettatore. Per esempio gli interventi del presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia o del procuratore di Tivoli Francesco Menditto vanno in questa direzione. Così come i cartelli finali”.

Antonio: A distanza di sei anni dall’entrata in vigore della legge n.69, cosiddetta Codice rosso, il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge volto ad introdurre il reato di femminicidio, intendendo come tale il delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per ostacolare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua libertà. Come pensa si possa valutare questo nuovo provvedimento normativo nel complesso delle azioni atte a contrastare la violenza di genere?

“Credo sia un passaggio doveroso. È obbrobrioso leggere titoli di giornale – formalmente corretti – per indicare il capo di imputazione di omicidio nei confronti di un marito che ha ucciso la moglie che voleva separarsi. E bene che l’Italia sia il primo Paese in Europa a farlo, visto che le statistiche ci collocano fanalino di coda in svariati altri ambiti. Ma certamente non c’è da festeggiare e non sarà questo a rappresentare una svolta culturale, né ad avere alcun potere preventivo. Non sarà questo a fermare la violenza, né i femminicidi. Nessun autore considera un deterrente la pena. Ed è anche angosciante e frustrante pensare che i diritti di quella che io considero la più numerosa minoranza al mondo – le donne – sia una questione prevalentemente relegata al 25 novembre e all’8 marzo”.

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