
01 Mag Scrivere: Esordio o avventura?
di Giada Brocato
Essere una scrittrice esordiente significa sbattere contro un muro invisibile: il pregiudizio. Le case editrici lo mascherano con frasi come “Non è in sintonia con la nostra linea editoriale” o “Non accettiamo manoscritti non richiesti”, ma spesso il vero problema è un altro: non sei un nome conosciuto, non hai già un pubblico, non sei una scommessa sicura. Il talento, ammesso ci sia, da solo non basta: servono numeri, serve una storia personale interessante.
Molte lettrici e molti lettori, magari inconsapevolmente, fanno lo stesso gioco. Entrano in libreria e scelgono i nomi già noti, quelli spinti dal marketing, quelli di cui già si parla prima della reale disponibilità del libro.
Ma il pregiudizio più subdolo arriva da chi ti pubblica senza credere in te. Alcune case editrici ti accettano solo perché devono riempire il loro catalogo, ma non investono sulla tua crescita, non ti supportano nella promozione, non ti aiutano a raggiungere lettrici e lettori. Pubblicano il tuo libro e ti lasciano da sola, come se il loro lavoro fosse finito lì. Nessuna strategia, nessun evento, nessuna guida per orientarti in un mondo che, senza aiuto, ti divora. Sei pubblicata, ma è come se non esistessi.
Ho provato a chiedere il mio romanzo in libreria e, in effetti, sul monitor c’era. E c’erano pure tutte le informazioni. Ma è cosa ben diversa dall’essere sullo scaffale o sulla pila di romanzi in bella vista appena entri. Su quelli quasi ci inciampi. Quelli strillano di strilli rossi e gialli di nomi noti.
E poi c’è il pregiudizio più insidioso, cioè quello di chi invia il proprio manoscritto e cade vittima del fascino dei grandi nomi. Perché anche noi esordienti commettiamo molti sbagli, di valutazione innanzitutto. Puntare solo sui grandi marchi vuol dire aspettare una risposta che non arriverà mai, puntare su certe realtà indipendenti vuol dire vedere nasi che si arricciano. Resta l’opzione del pubblicare in piccolo, con i piccoli, fra piccoli, che non è un disonore, perché il valore di un libro non sta certo nel marchio stampato sulla copertina.
Poi, per fortuna, arrivano le persone che senza che tu le abbia mai incontrate sentono il bisogno di dirti qualcosa, addirittura di ringraziarti. Solo allora capisci che non è questione di numeri, di case editrici blasonate o di librerie piene. Perché scrivere non significa essere ovunque, ma entrare nella testa di qualcuno. Perché da quel momento la tua voce esiste davvero.
Eppure, a volte, vorrei solo sedermi sotto i portici di Palermo e regalare i miei libri, vedere la sorpresa negli occhi di chi riceve una storia senza dover dare nulla in cambio, sentire la gratitudine silenziosa di chi sfoglia le pagine senza sentirsi un consumatore, ma solo un lettore. Oppure vorrei inviare il PDF a chiunque voglia leggerlo, senza preoccuparmi di vendite o di tutto ciò che va fatto per essere visibile. Ma non posso, perché questo mondo ti chiede di monetizzare, di promuoverti, di inseguire i lettori come se fosse l’unico modo per misurare il valore di ciò che scrivi. E stop.
Io Giada Brocato non cerco di piacere né di funzionare. Scrivo come sento, come so e come posso. A volte va bene, altre no. In questo secondo caso, lavoro su ciò che ho scritto, limo, taglio. Il labor limae è quella parte della scrittura che nessuno vede, ma che fa la differenza. È il momento in cui smetto di sentirmi ispirata e inizio a lavorare sul testo come un artigiano, parola per parola, togliendo il superfluo, limando gli eccessi, cercando la verità dietro la prima stesura, la seconda, la terza… e sono chili di trucioli, pagine momentanee, in attesa o perse.
Scrivere è relativamente facile. Riscrivere è difficile, rileggere lo è ancora di più, perché ci vuole la giusta distanza. E non è solo un atto tecnico: è soprattutto rispetto. Per chi leggerà, ma anche per ciò che ho scritto, perché non tutto ciò che ci viene di getto è sincero, e non tutto ciò che è sincero è chiaro. Il labor limae è la pazienza di chi vuole essere veramente compreso. Il labor limae è ciò che manca a tanti libri che oggi affollano gli scaffali: quelli scritti in fretta, con l’ansia di arrivare prima degli altri. Libri pieni di pretese, ma troppo frequentemente poveri di cura.
Scrivere è diventato, per molti, un atto performativo. Ma la scrittura autentica ha tempi lenti, ha bisogno di sedimentare, di essere riletta con occhi diversi, di essere corretta e riscritta, non per inseguire la perfezione, ma per avvicinarsi all’essenziale.
Chi scrive sa che il primo testo è solo l’inizio e che il vero lavoro comincia dopo. Purtroppo un certo mercato chiede libri “veloci”, facili da consumare, con una promessa di successo immediato. La vera scrittura non può inseguire quest’idea, perché si basa su un lavoro profondo e meticoloso, che richiede tempo, introspezione, fatica.
Inoltre, la scrittura non è serva di nessuno, non cerca approvazione ma connessione.
Un altro aspetto di cui oggi vale la pena parlare riguarda il mondo dei concorsi e dei premi letterari, un vero e proprio mercato, alimentato da quantità eccessive di iniziative. Ogni giorno, leggo nuovi bandi che promettono visibilità, contratti editoriali, opportunità di pubblicazione. Partecipare a questi concorsi è diventato un passo quasi obbligato, ma quanto davvero questi premi incidono sula qualità della letteratura?
La proliferazione di concorsi, il loro numero infinito, spesso legati a premi economici, ha creato un sistema che alimenta una sorta di competizione industriale, dove la vera passione per la scrittura si mescola a un gioco di strategie e aspettative. Non che la partecipazione a un concorso sia di per sé sbagliata, ma il problema nasce quando l’autore non si concentra sulla propria crescita, ma sulla ricerca della vetrina migliore in cui apparire col proprio romanzo in mano. Eppure il rischio di finire in un circolo vizioso di partecipazioni senza risultati concreti è altissimo.
Questo fenomeno, purtroppo, porta alla standardizzazione delle opere. Le case editrici e i concorsi stessi tendono a preferire certe formule, certi temi, che siano facilmente vendibili o immediatamente appetibili per un pubblico più ampio. Il risultato? Una miriade di testi che, purtroppo, finiscono per somigliarsi tutti. Piuttosto che scrivere liberamente, molti autori si ritrovano a inseguire quella formula vincente, adattandosi alle richieste di un mercato che premia più l’aderenza alle aspettative che l’originalità.
Negli ultimi anni, inoltre, molte copertine di libri, soprattutto nel genere della narrativa femminile, mostrano volti di donna di profilo o in pose suggestive vagamente rétro. È un marchio distintivo, quasi un’etichetta che indica un certo tipo di contenuto. Ma questo fenomeno solleva una riflessione importante. In un certo senso, queste copertine rischiano di ridurre il messaggio del libro a un’immagine superficiale, che può sembrare più una strategia di marketing che un’effettiva espressione del contenuto. Spesso, infatti, il volto di donna viene usato per suscitare un’emozione immediata, ma può anche rischiare di omologare tutte le storie a un solo tipo di narrazione: quella che mette la figura femminile al centro, ma senza andare oltre l’apparenza, senza raccontare la complessità dei personaggi o delle trame.
Non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nell’utilizzo di volti femminili nelle copertine, però è importante che non diventino un cliché. Ogni libro ha una sua identità, e la copertina dovrebbe rispecchiare quella unicità, piuttosto che adattarsi a uno stereotipo visivo che si ripete o piegarsi a immagini preconfezionate.
C’è un altro aspetto di cui mi preme parlare: la crescente tendenza a scrivere con l’obiettivo di essere promossi nelle scuole o adattati per le serie tv. Questo fenomeno non è necessariamente negativo: il mercato si evolve, e con esso anche le modalità di lettura e fruizione della narrativa. Tuttavia, resta fondamentale che gli autori non perdano mai di vista la propria onestà intellettuale.
Scrivere con l’intenzione di piacere a un determinato pubblico o di rispondere a una fetta di mercato è legittimo, ma non bisogna mai sacrificare la propria visione per compiacere le aspettative altrui. La scrittura deve restare un atto sincero, anche quando si cerca un pubblico più ampio o si ambisce a entrare in circuiti più commerciali.
Chi scrive deve sentirsi libero di esplorare tematiche e linguaggi che risuonano veramente dentro di sé, senza cadere nella trappola di scrivere solo per rispondere a una domanda momentanea o per seguire una moda.
A chi scrive, dico: prendi il tempo che ti serve, non avere fretta di essere visto o di arrivare; scrivi senza preoccuparti di cosa il mercato ti chiederà. La bellezza della scrittura nasce dal coraggio di essere se stessi, anche quando sembra che il mondo ti stia chiedendo qualcosa di diverso.
A chi pubblica, invece, rivolgo una preghiera: aiutate chi scrive a trovare la sua voce, a crescere, senza spingerlo solo verso ciò che è immediatamente vendibile. Solo così si potrà sostenere una letteratura che sappia parlare alle persone in modo duraturo e significativo.
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