
29 Apr In Dialogo con Silvia Salvagnini. Erbario Femminile e Sartorie
In Dialogo con Silvia Salvagnini – a cura di Francesca Grispello
Si cresce e nasce nel suono, il battito del cuore, le ninenanne, il dialetto, l’ambiente che ci riporta al familiare. Leggere Silvia Salvagnini mi ha condotto al mio selvatico, alla partitura che ha creato quella struttura portante del come ascolto. Saranno quelle tradizioni orali che hanno risuonato in me, preghiere, modi di dire, usanze, riti di passaggio, rimedi, cerimonie di un mondo clandestino.
Silvia Salvagnini pubblica per Sartoria Utopia Erbario Femminile con la prefazione di Rossana Campo per la collana I Samurai, un testo delicato, divulgativo, immaginifico, dolce e impetuoso. Medicamenti, proprietà, usi di erbe e frutti in versi e dedicati al femminile e qui dirompe ciò che è la cadenza del suono e l’intimità che si crea tra chi legge e il testo. Sartoria Utopia, è una casa editrice/atelier che progetta, stampa e cuce libri di poesia, un luogo in cui l’attività di laboratorio e quella della poesia di con.fondono per creare pezzi unici. Così maneggiando Erbario femminile la sua consistenza tattile è un viatico in cui versi, usi fitoterapici, ritmi ancestrali e sabba creano una connessione dolce e potente insieme. Vivida così è la luce nella casa di nonna e le sue mani che sgranano, sbucciano, e così risuono anche io.
Malus Umilia
Melo
Sbuccia una mela
a chi vuoi bene
per quello che ami
e che non ti vede
impresa d’amore
con delicatezza
sarai freccia
vera breccia
Questo libro, si legge, è nato partendo dagli appunti del nonno medico e raccoglitore di erbe selvatiche, poi cosa è accaduto?
Mio nonno Guido, nato nel 1901, era un medico illuminato, aveva creato una cura per i dolori reumatici fatta principalmente di piante e allestito una casa di cura, in principio a Venezia e poi nella campagna che la circonda, oggi periferia diffusa, dove io abito. Il piccolo ospedale era in un’abitazione di un mercante di tessuti e nel tempo, con la morte di mio nonno e varie storie familiari, degne di una saga, alcune sue parti sono state perdute. Io vivo ancora qui e ho recuperato alcuni pezzi di questa antica casa, nella quale i pazienti vivevano circondati da piccole vigne, fiori leggeri, triangoli di prati e si nutrivano di verdure del mercato dei contadini. Di pranzi preparati freschi dalle mani delle suore. E di prugne, ciliegie e fichi raccolti in giardino. Mia nonna faceva la spesa alla mattina. Mio nonno raccoglieva le erbe e ordinava da lontano quelle che non trovava. Preparava bende morbide. Si poteva mangiare e camminare in un piccolo giardino pieno di vita. Io vivo qui, in questo luogo che non esiste più, ho recuperato qualche pezzo di muro e continuato la stessa, anche se minuta, storia di cura. Fatta però della medicina che ho scelto, le parole nella forma bizzarra e fuori tempo della poesia. Con la convinzione che ci sia poi un legame tra tutte le cose. Ho conservato piccoli appunti, ricette di mio nonno, libri suoi e forse di mia madre, sulle erbe e le piante. Così ho deciso di portare la poesia proprio lì. Anello di cura, preghiera per la vita quotidiana, la vita vera. Non sono medico, non sono erborista, ho raccolto sapienze popolari, miti, leggende, ho unito i fili della tradizione di invocarle le piante, dell’idea della poesia come canto per il mondo, per me stessa, per tutto. Questa poesia che sembra così lontana, la volevo in mezzo alle cose, sporca, una poesia didascalica forse al contrario, che non porta solo allo scoprire attraverso la poesia, ma attraverso le piante alla voglia di dire ancora in forma di poesia.
La donna ha un rapporto molto peculiare con gli elementi naturali, come mai hai pensato alla dicitura “femminile” nel titolo? Femminile in questo testo porta con sé alcuni significati diversi. Il primo, in senso etimologico, inteso da foetus feto, foecùndus, fecondo, o addirittura da un’origine sanscrita che rimanda alla parola latte, acqua, allattare: un connotato che porta qualcosa di generativo, di nascita, di nutrimento, in senso stretto di naturale, di attaccato alla natura che genera. Indica quindi qualcosa dell’umano in senso lato, non antitetico al maschile, richiama un’umanità che immagino vitale, alla ricerca della salvezza, della sopravvivenza, generativa, collaborativa.
Le piante come modello femminile di vita, di linfatico, generativo e collaborativo, nutrimento e comunicazione come un modello etico, una posizione politica, per un’umanità fatta di cooperazione, di linguaggi segreti, di mancanza di divisione, in grado di trovare una modalità comunicativa altra, con altre forme, che portino a pace, unione, sorellanza, vitalità. In altro senso invece femminile riguarda un’attenzione alle proprietà più curative, anche se non in modo esclusivo, rivolte alla vita fisica e sociale della donna.
Un ripercorrere alcuni dei miei temi fondamentali, gli stereotipi sulla donna contemporanea, attraverso gli usi delle piante stesse, che sono spunto per parlare alle nostre vite, alle nostre fatiche.
Femminile poi nel ricordo della pratica delle antenate, delle monache, delle streghe, delle contadine, delle nonne, delle balie, delle sciamane, delle sibille, delle fate, delle Parche: tutte coloro che usavano la forza della parola.
E per finire c’è il mio di femminile, il mio modo personale di trovare attraverso questo libro una forma di cura dalle fatiche, dagli sforzi, dalle cicatrici fisiche ed emotive della mia vita, che forse è una storia comune: storia di figlia, madre, ragazza e anziana insieme, che ha amato, partorito, allattato, accompagnato alla morte con amore tutte le donne di casa, unica femmina rimasta della famiglia.
Nel tentativo di vivere la storia della vocazione di me ragazza di diciotto anni, che volevo iscrivermi a medicina, come mio nonno, come mio padre, ma in sogno una splendida Rita Levi Montalcini mi disse: la medicina cura il corpo, la parola cura tutto.
C’è un rimedio contenuto in Erbario femminile a cui è particolarmente legata?
L’ultimo testo Agnocasto. Avevo allattato per molto tempo il mio secondo figlio e alla fine di questo lungo ciclo ho iniziato a soffrire molto di un’invadente sindrome premestruale, mi recai dal dott. Roberto Fraioli, un ginecologo molto attento al mondo e ai ritmi del naturale, mi consigliò di provare l’agnocasto, di passeggiare, di nutrirmi e di darmi spazio. Il mio spazio è la scrittura notturna. Cosi comprai l’Agnocasto, ma non lo ingerii, lo tenni vicino a me aspettando il momento buono e aprii i libri di mio nonno. Cosi iniziai questo alfabetiere, l’ultima pianta che incontrai fu proprio Vitex Agnus – Castus. Stavo meglio, non so come era così, percorrendo in questo studiare di erbe e alberi, anche le tappe dei miei sintomi, questi stessi confezionati in preghiere, erano diventate per me carezze materne, gentilezze.
Come è entrata in relazione con l’autrice della prefazione, Rossana Campo?
Rossana Campo è la mia sista ritrovata nell’universo. Ci consideriamo vere sorelle. La scrittura ci ha avvicinate. Un mio amico, suo fedele lettore, le aveva inviato alcuni piccoli libri, molti anni fa, tra cui una delle mie prime pubblicazioni, I baci ai muri. Lei rispose a lui incuriosita dal mio testo, lo trovava molto forte e cosi ci siamo messe in contatto. Abbiamo iniziato a scriverci e a telefonarci, capendo che molte cose erano comuni, che ci capivamo. Poi ci siamo incontrate e appena l’ho vista mi è sembrato che l’arcobaleno le spuntasse dalla testa. La mia scrittrice contemporanea preferita, era anche mia sorella. La mia poesia fracassata me l’aveva fatta ritrovare. Sono passati 20 anni da quella primavera e siamo ancora così, non ci serve nemmeno vederci, ma ci sentiamo quasi tutti i giorni. Quando ho scritto l’erbario lei ha sentito un forte coinvolgimento e ha condiviso con me l’energia di questo testo, donandomi la sua prefazione.
La voce della natura, in questo testo è calda e avvolgente, ma molto magica nell’indicare che ci sono anche pericoli, e sempre in questa magia confidenziale c’è una restituzione che alla natura si offre. Quanto gli elementi naturali hanno avuto impatto sulla tua scrittura?
La natura ci offre tutto, come la vita, come le piante, tutto va avvicinato con rispetto, attenzione delicatezza, un’erba ci può aiutare e può essere un potente veleno. La vita nostra come quella vegetale è fatta di attacchi, il cambiamento è risposta al disturbo, all’ambiente, siamo sottoposti ad adattamento, cambiamento, apprendimento e sviluppi continui. Coesistenza di stabilità e mutamento. La natura e il cosmo, la parola in poesia come forma di connessione e coesione con qualcosa di ampio.
La natura è elemento ricorrente in tutto il mio lavoro: dall’osservazione della periferia diffusa che invade il mio paesaggio di campagna, dove il papavero in autostrada, l’erba incolta, diventano simboli a cui aggrapparsi, tentativi del fragile di spaccare il cemento, possibilità di respiro, di una vita diversa rispetto a quella dell’ordine dominate, ti propongo fiori bianchi/ fiori di campi/ per aggrapparti; disboscato anche il giardino del vicino; portavo un ciclamino/ in appartamento frantumavo/ briciole di cemento; e così via nel Seme dell’abbraccio (Bompiani).
La natura come giardino planetario, ispirata dalle lezioni e dalle idee del giardino in movimento di Gilles Clement. La natura connessa alla percezione di un ritmo univoco che tutto attraversa: nel libro Il giardiniere gentile (Verbavolant), l’essere umano aspira ad essere un giardiniere, direttore d’orchestra, in grado di sentire il suono della musica che abita dappertutto, abita le erbe, le bacche e le erbacce.
La natura in Cappuccetto rosso, Ovvero della presunta ingenuità (Sartoria Utopia) dove il lupo dal bosco è pericolo, agguato, forze oscure che possiamo guardare e scegliere di non farci divorare, sapendo godere dei frutti più dolci, nei vasi di marmellata, del gusto della vita, sapendo che abbiamo bisogno di autoconfine e riparo.
Per approdare ad Erbario femminile dove la natura a pieno titolo diventa modello di vita, canto al contromondo, approdo a una dimensione salvifica, in una realtà dominata da un’invasione violenta a tutti i livelli del sociale e dell’intimo, la natura come concezione sistemica della vita, modello e spunto per un’immersione nei suoi poteri.
In questo libro cerco un colloquio intimo, diretto con il mondo vegetale: parlo delle piante, in alcuni casi parlo alla pianta in altri, personificata, essa stessa prende voce.
La natura da ordinare, da ascoltare, da sgrammaticare e da riscrivere, da cantare e da suonare: il tuo sembra un approccio poetico al quotidiano che coniuga il gioco bambino e l’alchimista sapiente: dove ti collochi?
Nella dimensione trasversale che attraversa continuamente questi due mondi. Tutta la mia poesia parla del quotidiano, un diario dei giorni minimi. In questo semplice a mio avviso dobbiamo indagare, mettere occhi, lì compiamo atti. L’infanzia è elemento dominante e trasversale come la natura. I ritmi dati dai suoni della parola infantile e dai ritmi delle cantilene per i bambini: una musica che cuce tutto e tutte le ere della vita, rendendo lieve in senso ironico, in qualche modo, non in senso dissacrante ma di posa, posizione, attitudine, scherzetto, alla poesia stessa. Mi interessa la poesia non con la parola Poeta con la P maiuscola ma come posa minuta e forte e sovversiva: come il ricamo, la preghiera, il curare le erbe, il suonare, tutte pratiche, che hanno una postura non invadente, non appariscente ma seducente ed emanano energia vitale, energia d’amore e medicamento. L’infanzia è come un amuleto, che porta con sé un ritmo di dolori, carezze, malinconie, melodie che continuo a tenere vivo, come un luogo del possibile. Rimane qualcosa di selvatico e ribelle. Come un diritto all’esistere.
Allo stesso tempo arriva qualcosa da lontano, un messaggio, un sapere che viene da un’attenzione filologica ma imprecisa allo stesso tempo, che attinge dalle sapienze popolari e dall’intuizione, che nella scrittura avviene, di concepire possibile il dire qualcosa della vita e del sentimento dell’universo. Un tentativo da alchimista che cerca qualcosa di vero e magico.
Allora musica, ninna nanna, cantilena, sabba, girotondo tutto è fatto per cercare di dire qualcosa che si sente vero come antidoto, come succo della vita e che sia apertura degli occhi, via di fuga, non ti propongo/ una soluzione esterna/ ti propongo/ una parola interna: allo stesso tempo per discostarsi, ribellarsi, creare con la parola comune un luogo di scrittura dove si cerca una forma di ribellione nel linguaggio, nell’immaginario, il cui approdo sia semplice, come il termine dice, piegato una sola volta, quindi facile da aprire, controcorrente, come un bigliettino appena chiuso, una piega dalla quale intravvedere un mondo, un modo, un tuffo.
Una formula chimica, una formula magica, una forma di preghiera.
Hai realizzato lavori dedicati ai più piccoli, quanto l’infanzia è luogo in cui attingere significati e medicamenti per il futuro?
Li considero lavori trasversali, per i più piccoli e per le parti di noi piccole. Io ho parti di me molto infantili, che non rinunciano a una trasparenza e fragilità, che cercano ancora conforto, parti molli, delicate, selvagge a piedi nudi, tra gli alberi, liberi di colorare, che sentono carezze della buonanotte, da dare e da ricevere. Quindi il luogo preciso del medicamento. Della pelle nuda, delle ginocchia sbucciate, della prepotenza di infrangere. Luogo soprattutto del carillon, come la lampada magica di Fanny e Alexander. Luogo del totale pericolo e della totale morbidezza della pelle esposta, del suono degli uccelli, delle voci di mia nonna. Dei primi suoni. Da qui ho scelto i carillon, per accompagnare i testi di questo libro: scatola musicale per neonati, il primo regalo ricevuto da mio padre per il giorno della mia nascita. Quindi attingo a questo mondo, che ci ha resi vivi, sopravvissuti, alle musiche e canzoni dei bambini, come forma di cura sonora, di gesto di cura della vita. Non contano le storie disperate di ognuno, se siamo vivi, se siamo ancora qui, ci sarà un suono, un gesto, una vibrazione del mondo che ci ha aiutati ad essere, nell’infanzia, sopravvissuti. Questo tocco nella nostra prima spinta alla vita, questa connessione, mi piace muoverla, richiamarla, per dire sì, siamo qui, a quel bambino dico: ti diamo lettera, lingua, linguaggio / nome che chiama nome / non sappiamo dirti cosa / il normale lo strano / sappiamo solo sarà / sarà l’umano.
Cosa nasce prima nella tua scrittura l’immagine o il suono delle parole?
La mia scrittura nasce da un lavoro interiore, io non scrivo molto, rifletto, sbaglio, guardo la vita, sono dissestata. In tutto questo mi chiedo continuamente quale sia la forma di scrittura che possa avere un senso nel presente e mi offro delle risposte, delle regole, un codice, che reagisce spesso al fastidio di certi usi contemporanei del linguaggio. Poi arriva qualcosa che la vita mi dice, come a tutti noi. Questi due elementi così diversi si fondono grazie al suono. Il ritmo che cerco nell’atto del creare, nell’atto creativo, come suonare, dà lì non so come, nasco le immagini che danno dorma al mio pensiero.
Quali sono gli autori e le autrici che hanno creato un solco decisivo nella tua grammatica poetica?
I nomi sono tanti. Tra tutti, i miei grandi maestri, che poi mi hanno accolta, Sanguineti, Balestrini, Caproni, Saba, Rosselli, Cavalli, Gualtieri, Lamarque, Nove, Nacci e le mie care Genti e Campo.
Si legge nella tua biografia: “scrive in versi, realizza lavori, libri e concerti fatti di parole, musica, immagini e cuciture.” Accade per il tuo lavoro “Il seme dell’abbraccio” poi diventato anche album. Trovo molto sinestetico e generativo il legame tra tessitura, parola e musica, puoi raccontarci di più?
Come dicevo sono pratiche dalla posa raccolta, minuta, umile, ma tutte attraversate dalla musica, che è per me la fonte prima di amore ed ispirazione. Ma poi mi piace dare forma, armonia, bellezza, a mio modo, non so se ci riesco, unire le parole in libri cuciti, incollati, riportarle poi alla musica, farle rivivere, condividere tutti linguaggi che hanno una piccola matematica interna, fatti di micro elementi, punti, note, parole di cui non sono maestra ma che, facendo ricamo, assumono una forma d’ordine, come l’orto di un monastero e mi danno l’idea che questo forte sentire che ho dentro si propaghi, parli alle nuvole, alle piante stesse, alle formiche, a chi ho la fortuna di incontrare, per onde sonore e corridoi, senza sperare in un approdo, in un successo, in un pubblico ma allo stesso tempo con un pubblico ampio immenso, quello in cui tutto questo suono si propaga, come l’incantesimo di una strega bianca, la ninna nanna delle nonne, il rumore di uno spicchio di mela sbucciato.
Alchemilla vulgaris
Alchemilla, erba stella, erba ventaglina, erba rugiada
Alchemilla dalle tue stelle
facevano oro gli alchimisti:
tra giugno e agosto ti raccoglierò
conforto di ogni prurito
ventaglio per fare aria fresca
sulle mie sponde segrete.
Bollirò 5 g di foglie in 100 ml
d’acqua per lavande per lenire
l’urlo che nessuno vide
che nessuno dice.
Erba rugiada porta via
le ferite intime della vita mia.
Come hai conosciuto Sartoria Utopia e quando nasce la vostra collaborazione?
Anche questo è stato un incontro magico. Francesca aveva pubblicato nel 2004, un libro epocale con Meridiano Zero, Il vero amore non ha le nocciole, assolutamente rivoluzionario. Io vengo contattata dalla sua Editor, che aveva letto il mio primo libro, Silenzio cileno e le porto in lettura le bozze iniziali de I baci ai muri. Lei mi regala il libro di Francesca. Mi innamoro, prefazione di Rossana Campo. Nel libro c’è un verso che dice: sono una ragazza metropolitana, nel mio: non sono una ragazza metropolitana / mi aggiusto le mutande con i fili di lana. Una staffetta inconsapevole. Siamo entrate in contatto, ci siamo riconosciute in una lotta per la poesia pazzerella e scanzonata. Io ovviamente ho perso la testa per il progetto editoriale di Francesca e Manuela Dago. Quando hanno visto che oltre alle poesie c’era tutto questo mio fare tra disegno, ricamo, incollo, suono, hanno accolto con tanto amore e mia grande gratitudine alcuni dei miei lavori, oltre a rendermi partecipe di bellissime antologie, calendari, agende e loro innumerevoli meraviglie.
Un luogo
Casa di cura Padre Leopoldo, casa mia
Un colore
Bianco
Un pasto
Pasta con il pesto fresco
Un dono
Il carillon, iris, tulipani, ranuncoli
Un’immagine
Nike di Samotracia
Un odore
di latte della pelle dei bambini
Una casa
mia nonna, mia mamma, Monk’s House
Un oggetto
il pianoforte
Un verso
A questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi, / mi abbracci o mi allontani. / Il resto è per i pazzi, di Patrizia Cavalli da Pigre divinità e pigra sorte.
Un testo
A una stella cadente di Mara Cerri
Un nome
Nicolò De Giosa, mio marito, il mio artista preferito
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