Ai margini dell’umano. Luoghi, scrittura e pensiero di Anna Maria Ortese

di Ivana Margarese

 

“I libri – scrive Elisa Attanasio nella sua introduzione di Ai margini dell’umano. Luoghi, scrittura e pensiero di Anna Maria Ortese ( da lei curato ed edito da Franco Cesati editore) – nascono in un luogo, in un tempo, per mano di persone che molto raramente si trovano in una condizione isolata da cui poter pensare, leggere e scrivere astraendosi dal contesto. Quando leggiamo, a volte ci dimentichiamo che chi scrive è un corpo leggero, pesante, affamato, stanco, vive in una casa da tenere in ordine, possiede un frigo da riempire, si relaziona con un collega con cui litiga, accudisce una figlia con la febbre, passeggia con un cane, dimentica una bolletta, ha tavoli da servire, saggi da consegnare, capelli da tagliare. Credo sia importante allora raccontare per prima cosa come è nato questo volume, sapendo che non esistono sguardi oggettivi, pianeti inermi sospesi nello spazio, realtà fisse, osservabili e restituibili, luoghi lisci e tempi misurabili”.

Con queste parole la curatrice di Ai margini dell’umano Luoghi, scrittura e pensiero di Anna Maria Ortese mette al centro sin da subito il concetto di situated knowledges sviluppato da Donna Haraway e evidenzia come il progetto corale del libro, che festeggia la scrittura di Anna Maria Ortese – con i contributi di Alice Pantalena, Chiara Tombolini, Alice Bada, Eleonora Negrisoli, Ilaria Bruno, Alberica Bazzoni, Sara Gristina, Emanuela Agostinetti, Laura Fugazza e le preziose conclusioni di Monica Farnetti – sia nato da intrecci di esperienze concrete, da saperi situati e sensibili anche alla rinnovata attenzione presente in questi ultimi anni per l’opera di Ortese, considerata precorritrice di temi urgenti quali la condizione del pianeta, la relazione con altre specie (animali e vegetali), il concetto di crisi.
L’architettura di questo testo, aperto alle varie dimensioni e forme dell’alterità, si compone di tre parti: la prima rivolta ai luoghi, ovvero alle geografie reali e fantastiche dell’opera ortesiana; la seconda dedicata al rapporto con altre scritture (Pugno, Landolfi, Lispector); l’ultima intenta a indagare la relazione con altri sistemi di pensiero (Braidotti, Haraway).
Le questioni scelte mostrano come la scrittura di Ortese necessiti di essere collocata in un più ampio contesto, non solo letterario ma etico-filosofico e come il libro risponda, sulla scia della riscoperta ortensiana, a questo richiamo.
«Scrivere, – se non è pura vanità o lusso – è proprio cercare un altro mondo. Cercarlo disperatamente» dice Ortese in un’intervista all’amico Dario Bellezza per Paese Sera (31 gennaio 1983). Un sentire ereditato dalle autrici di Ai margini dell’umano che provano a rintracciare nelle opere della scrittrice altri modi di stare al mondo e di stare col mondo. È stato più volte sottolineato come Anna Maria Ortese faccia del suo disorientamento una risorsa creativa rimodulando attraverso il processo espressivo il suo rapporto con la realtà. Non si tratta tuttavia di un uso disimpegnato della letteratura come fuga nel fantastico o nel sogno, ma di una ricerca pervicace, sotterranea, ricorrente dell’espressività capace di restituire una dinamica di inversione tra ciò che è palesemente manifesto e ciò che si nasconde in attesa.

Scrive Ortese ne Il porto di Toledo: “L’Espressività […] era, in realtà, un secondo mondo o seconda realtà, una immensa appropriazione dell’inespresso, del vivente in eterno, da parte di morituri; e ciò, non già al solo fine di esprimerlo (questo un effetto secondario) bensì di costituirsi, tale inespresso finalmente liberato, come una seconda irreale realtà; non tanto irreale, poi, se vedevamo la realtà vera disfarsi continuamente, al pari di un vapore acqueo, e la realtà irreale dominare l’eterno”. E ancora in Corpo celeste: “Riuscii qualche volta ad accostare questa riva luminosa – io mi considero un eterno naufrago – dell’espressione o dell’espressività che avevano per scopo questo eterno interesse: cogliere e fissare, sia pure il tempo di un istante – e mi riferisco alla durata di un risultato artistico –, il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire”.

L’intera opera di Ortese si confronta con la dimensione imprevista e misteriosa del vivere, col rapporto fra visibile e invisibile e con le facoltà percettive, immaginative e affettive che consentono di entrare in contatto col mondo in cui abitiamo. Al regno dell’intelligenza, ovvero del logos, che si orienta a dominare il mondo la scrittrice contrappone un’attitudine contemplativa, colma di attento stupore, che si riflette nel suo stesso stile di scrittura fuori dai generi narrativi e capace di superare ogni consequenzialità logica procedendo per associazioni impreviste. Come ben sottolinea Bazzoni: “Si tratta di opere ardue, che richiedono una modalità di fruizione immersiva, passivizzante rispetto al desiderio di controllo. Costringono a un esercizio di sospensione dell’anticipazione di senso come abitudine cognitiva e all’accettazione del flusso di immagini, parole, scene, metamorfosi, rinunciando a governare la lettura secondo un principio di consequenzialità logica. Sono scritture che inducono una frustrazione dell’esigenza di senso dell’io cosciente e razionale, sollecitano il rilascio di una postura controllante a favore di uno spazio di intensificazione percettiva e di rimodellamento dei confini – fra i generi testuali, fra l’umano e il non-umano, fra i piani temporali, e fra le prospettive, fra la percezione e l’immaginazione”.
Questa ampiezza di sguardo viene restituita dalle autrici di questo saggio anche nel mettere in connessione Ortese con figure disparate come nel caso di Eleonora Negrisoli che offre un’analisi de L’Iguana in rapporto a Sirene di Laura Pugno o di Ilaria Bruno che mette Ortese in dialogo con Landolfi, di Bazzoni che associa la sperimentazione letteraria di Anna Maria Ortese e Clarice Lispector, di Gristina che analizza le convergenze col pensiero di Braidotti – per citare solo alcuni dei confronti proposti.


Questa pluralità permette di scorgere in questo testo, come a più riprese sottolinea Monica Farnetti, una dimensione di festa in cui le giovani autrici, orchestrate da Elisa Attanasio, si assumono la responsabilità di interrogarsi “sul posto riservato all’umano nel grande archivio di oggetti azzurri, spazi verdi e piccole persone in cui hanno imparato a identificare l’universo” con una costellazione di sguardi umili e visionari che non possono che incarnare un omaggio al percorso di scrittura e di vita di Anna Maria Ortese e riconoscere la “sontuosa ricchezza e la stupefacente lungimiranza” del suo sguardo e del suo pensiero.

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