Caramelle di vetro

di Marina Sangiorgi

 

Sua sorella mi odiava. Forse. Quando parlavamo negli angoli, quando mi facevo accompagnare a casa. Non succedeva niente, ma ero contenta lo stesso.

In quegli anni luminosi e precari era costante e continuo l’essere aperta al possibile, all’ipotesi, al domani. Anche stasera sono in giro, anche domani lo vedo, e chissà.

E me lo dicevo, lo speravo, lo pensavo tra me e me: non finisse mai l’anno della tesi. Che infatti lo allungai, lo feci durare dei mesi oltre il necessario, mi presi dei tempi ulteriori, supplementari.

Ma alla fine mi laureai. Il tempo stringe, e vola e passa. Ed eccomi laureata, finalmente. Purtroppo.

Lui mi offrì da bere, mi prese in giro, mi toccò il gomito. Era gentile, e io spiritosa. Spiritosa e spaventata. E sciocca. E felice di vederlo, di incontrarlo sotto i portici, alle fermate degli autobus. Di incontrarlo in via Zamboni quando mi ero pettinata, senza macchie sui calzoni, senza inchiostro sulle dita, senza labbra screpolate. Raramente succedeva. Allora, presa dell’entusiasmo, mi sbilanciavo, ridevo troppo, e si vedeva: che probabilmente ero innamorata, quasi.

Ero giovane, non mi abbattevo, la speranza di quel periodo ancora mi commuove e mi consola, come la luce sulla facciata di San Giacomo nelle giornate di sole.

Poi scrivevo. E qualcuno me lo diceva, stupefatto, coi miei fogli tra le mani, che scrivevo bene.

Non lui, però. Lui sempre a criticarmi, a correggermi a penna. Penna rossa, da quel giovane professore che era.

Piacevo alle amiche. Loro sì che si divertivano, a ridere quando sono comica e a sospirare quando sono malinconica. A volte leggevo: facevo le mie letture in casa, loro sedute intorno al tavolo, io in piedi, protetta dalle pagine, allo sbaraglio della mia voce.

Quel giorno sul terrazzino della cucina lui fumava e io parlavo. L’appartamento era pieno di gente, tutti a studiare in tutte le stanze, e chi doveva parlarsi, e quelli del teatro incontrarsi, e in camera mia gli attori provavano seduti sui letti e per terra. Così noi, per fare due chiacchiere, eravamo usciti sul terrazzo.

Era primavera, un’aria frizzantina, io pensai a un tratto: questo qui me lo sposo.

Invece, vedi la vita, già l’anno dopo ci perdemmo di vista. Per anni smisi di pensarci.

Eppure l’anno della tesi, e anche prima, e dopo, lo sognavo di notte, e sobbalzavo quando entrava nelle stanze, quando lo incrociavo sulle porte. Quando ci sfioravamo nei corridoi. Quando nell’ingresso, appoggiato al mobile del telefono, gli passai vicino e lui disse: ops. Ops che? Mi girai.

Be’, questa non è una storia, ovviamente. Non è una storia d’amore, perlomeno. Però fu amicizia. Amicizia quella sì. Parlavamo sempre. Le sere fino a tardi coi gomiti sui tavoli. Lui con la birra, io senza niente, solo contenta di guardarlo. Di guardargli l’attaccatura buffa, ben disegnata, dei capelli sulla fronte. Le dita lunghe e schiacciate che arrotolavano sigarette.

Era gentile. Non sempre, a dire il vero. Intelligente. Buono, almeno con chi gli andava a genio.

Mi piaceva. Mi faceva tenerezza. Mi faceva arrabbiare. Mi faceva tremare se mi accompagnava al portone, se mi toccava il braccio qualche volta.

Quanto doveva sapere tutto! E non m’illuse neanche un secondo.

Forse alcune cose di me gli piacevano. O almeno mi sarebbe piaciuto che gli piacessero. Forse gli stavo simpatica, e basta.

Lui cercava una donna, che non ero io.

Io, anche se credevo di farlo, non cercavo un uomo: cercavo di capire gli uomini.

Adesso invece cerco un uomo. Li capisco abbastanza, ho smesso di temerli. Non lo trovo, ma so il perché.

Allora non sapevo com’ero fatta, com’ero sul serio. M’illudevo su me stessa. Lui invece: da come mi guardava mi capiva, e il suo sguardo mi aiutò nel capirmi, fu l’inizio dell’avventurosa comprensione di me stessa.

E poi ha lavorato a Rovigo, a Cremona, è tornato quest’estate. Così l’ho rivisto. E’ stato emozionante. Un saluto soffocato, stupito, col gelato in mano ai Giardini.

Ero con Giada.

– Chi è quello? – mi ha chiesto.

– Nessuno. Un vecchio amico –

– Certo, come no. Fammi il piacere –

– Ma sì, ti giuro –

– Almeno potevi chiedergli se è sposato –

– Figurati! –

Ma la fede al dito non l’aveva.

E poi ieri. Al battesimo della prima bambina di Cinzia. Che era venuto, e al mio tavolo si parlava di lui, che non era fidanzato né niente.

Così l’antico batticuore, il sudore, il magone, come fossi nata ieri, che invece sono vecchia, ma ancora rossori e bollori e balbettii e sorrisi sciocchi, con amiche che mi guardano come per dire: allora?

E io per tutto il tempo a guardarlo da lontano, a oscillare sulle gambe, e non mi avvicino, e lui non si avvicina,  – che poi è coi suoi amici e con una bionda in tailleur, quindi lasciamo perdere che è meglio.

E a metà pomeriggio ci si saluta, regali e baci, m’infilo il golf, sono lì con Cinzia e la bimba, che ha le mutande di pizzo, la cuffietta, la piccola faccia tranquilla e stanca, ed ecco mi sento chiamare.

Lui. Sento il mio nome dalla sua cara voce. Talmente confusa e contenta mi giro di botto, ma goffa, repentina, sbatto nella cesta delle bomboniere: tante colorate, screziate caramelle, legate a sacchettini di confetti rosa, che precipitano al suolo in un crepitio tintinnante, con un rumore delicato e assordante di vetro infranto.

 

 

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