
10 Apr La metà notturna: la poesia onirica di Francesca Del Moro
di Nerio Vespertin
La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro.
Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.
Schopenhauer
Nel suo romanzo d’esplorazione psicologica “Doppio sogno”, Arthur Schnitzler mette in scena una progressiva quanto inesorabile discesa nelle oscure regioni dell’inconscio umano. Sfruttando l’espediente narrativo dei sogni, l’autore non si limita semplicemente a rivelare i desideri repressi dei protagonisti, ma giunge al punto da mettere in dubbio l’effettiva consistenza della realtà diurna: se durante la veglia la natura più autentica dei protagonisti è costretta a rimanere frustrata, non resta che nei sogni la sola possibile realizzazione. In questo senso, con la loro misteriosa cifratura simbolica, le immagini dei sogni non nascondono la verità, semmai la elevano a un livello di autenticità più alto, intollerabile per la ragione.
Sembrerebbe difficile seguire tale logica fino alle sue estreme conseguenze, analizzare cioè i sogni non più come una versione distorta di ciò che siamo, ma come la nostra parte più autentica, scevra da costrutti razionali. Eppure, a una lettura più attenta de “La metà notturna” (Bohumil ed., 2025), recentissima fatica letteraria di Francesca Del Moro, non si può fare a meno d’interpretare le sue poesie oniriche come la naturale evoluzione della sua opera letteraria razionale. Un lavoro da lei intrapreso da quasi quattro anni nelle precedenti sillogi, da “Ex madre” (Arcipelago Itaca, 2022) a “L” (Gattomerlino, 2024). Ma se queste prime raccolte rappresentavano la cronaca ‘diurna’ di una perdita e il conseguente dramma esistenziale del sopravvivere a essa, “La metà notturna” costituisce un doppio in chiave onirica che riprende e trascende gli stessi temi.
Per interpretare la profondità psicologica di un simile lavoro e qualificarne la valenza artistica, è necessario porlo prima di tutto nell’ordine cronologico dei lavori precedenti. Francesca Del Moro, selezionata allo Strega per la poesia nel 2022 proprio con “Ex Madre”, si faceva portavoce di una testimonianza terribile, quanto necessaria: dare voce al dolore di una madre divenuta orfana di figlio. Con uno stile all’apparenza leggero, ma che non risparmiava al lettore nulla dell’essenza del vissuto, i suoi versi rappresentavano fedelmente l’anatomia di un dolore perfetto, assoluto. Un dolore davanti al quale l’intelligenza emotiva della poetessa non operava filtri, ma sintetizzava ogni esperienza in termini minimali, consentendo una lettura intensa e indimenticabile.
Sembra incredibile che dopo una silloge dall’impatto talmente violento in termini emotivi si possa proseguire senza ridurre il tono. Invece, appena due anni dopo, usciva “L”, un sorprendente percorso di ritorno alla vita. Riprendendo la trascrizione del vissuto dove si era interrotta, la poetessa affrontava un vero e proprio ‘viaggio di ritorno’ verso la superficie: una strada fatta di ricadute, confronti e fugaci momenti di distrazione. E se “Ex Madre” si concentrava sul buco nero dell’io ferito, “L” trovava spazio per altre figure satellite, ruotanti attorno al punto di vista dell’autrice: amici, amanti, conoscenti ed estranei, ognuno capace di “disturbare” e in qualche modo incrinare la perfezione assoluta del dolore personale. Anche in questo caso Del Moro dava prova di una grande lucidità e di uno stile ammirabile. Segno inequivocabile di un enorme lavoro di riflessione e di perfezionamento.
Verrebbe da chiedersi ora, se dopo uno sforzo razionale così intenso per elaborare un lutto e accettarne i termini nella vita di tutti i giorni, ci possa essere spazio per qualcos’altro. Ovvero, se una coscienza così profonda e onesta possa aver omesso qualcosa dell’esperienza trasmessa con i versi. La risposta si trovava in parte in “L”, dove si potevano trovare ben tredici poesie sul tema del sogno: vere e proprie trascrizioni oniriche, dove però le scene e le situazioni si mescolavano perfettamente con i momenti del giorno, suggerendo quasi il loro proseguo durante il sonno. La stessa risposta che ora scopriamo ne “La metà notturna”, completando e trascendendo i termini delle precedenti sillogi. Come per “Doppio sogno” di Schnitzler, le visioni oniriche completano la metà diurna: tutto ciò che la ragione non è in grado di accettare, né assumere nella sua interezza, trova spazio in immagini conturbanti, a volte comiche, altre volte sconcertanti. Nella costruzione del libro, Francesca Del Moro dice di aver eseguito una trascrizione quanto più fedele possibile dei suoi sogni al risveglio, anche quando quello che trascriveva la lasciava contrariata o perplessa. E a ben vedere, nei testi della sua silloge scopriamo figure archetipiche già incontrate in precedenza, rivestite ora di nuovi ruoli. I genitori, gli amici, il compagno, la gatta di casa, il figlio scomparso: i protagonisti di questi versi si affacciano all’orlo della coscienza per gettare un messaggio al lettore, un codice cifrato di emozioni e di rimozioni. In questa sequenza all’apparenza assurda, inquietante e commovente, l’attenzione ai particolari è cruciale: gli elementi tornano ciclicamente, camuffati o in chiaro. Le parole, i gesti codificano il senso più profondo, quello che la ragione rifugge e (forse) teme.
Con “La metà notturna” sembra quindi completarsi un ciclo che ricostruisce il perimetro della coscienza con la sua parte lucida. Ma è davvero così?
Si può davvero completare la mappa di un individuo facendo combaciare due metà?
O forse la somma delle parti è sempre destinata a restare minore del suo intero?
Francesca Del Moro risponde alle nostre domande per Morel:
Nerio – È dai tempi del surrealismo e dell’invenzione della scrittura automatica che la trascrizione del subconscio onirico interessa l’arte letteraria. Eppure, almeno nella poesia italiana, sono pochi i casi di cui se ne sia sentito parlare, fatta eccezione (credo) per Maurizio Cucchi e la sua “Scatola onirica”. “La metà notturna” in questo senso è un’opera necessaria quanto affascinante: si dirige in un terreno poco battuto, parla di sogni, d’inconscio e lo fa con uno stile poetico asciutto ed essenziale. Come trovi più giusto definirla? Una raccolta di sogni resi in poesia o una raccolta di poesie sul tema onirico?
Francesca – Sono in molti in verità ad attingere al materiale onirico in poesia o a trarne ispirazione in termini di atmosfera e struttura logica, o meglio illogica. Non sono però a conoscenza di opere in versi interamente dedicate ai sogni, che li riportino fedelmente senza provare a spiegarli ma lasciando al lettore il compito, se vuole, di interpretarli come meglio crede. Non ho letto il libro di Maurizio Cucchi che tu citi ma, da vari commenti reperibili in rete, deduco che si tratti di un’opera stratificata e complessa, solo in parte riguardante il tema onirico.
L’unico testo italiano in cui ritrovo un precedente del mio lavoro è Il diario di un sognatore, di Luigi Malerba, che considerava il sogno una “zona affascinante ma oscura della mente umana”. Pubblicato per la prima volta nel 1981, il libro è una raccolta di brevi prose, nate dall’impegno dello scrittore a registrare puntualmente i suoi sogni notte dopo notte per l’intero anno 1979. Ispirata dal suo lavoro, ho fatto la stessa cosa tra il 2023 e il 2024, riportando ciò che ricordavo di ogni sogno, senza filtrare in alcun modo il materiale onirico attraverso giudizi, interpretazioni o sensazioni esperite nello stato di veglia, senza censurare niente e senza alterare la sequenza degli eventi. Limitando al piano formale ogni intervento razionale, mi sono inoltre sottratta alla tentazione di approfondire l’argomento, magari riprendendo in mano qualche saggio di psicologia, perché ciò avrebbe rischiato di allontanarmi dalle mie intenzioni di raccontare i sogni esattamente come li ricordavo.
N – Quello che colpisce di queste tue poesie è davvero l’originalità e l’imprevedibilità delle immagini che trascrivi. Le tue poesie riescono a rendere la caotica fantasia del processo onirico, regalandoci ora visioni terrificanti, ora vicende comicamente assurde; eppure, a differenza della scrittura automatica dei surrealisti, lo stile è sorprendentemente controllato. I versi non sono mai sbilanciati: i termini sono sempre giusti, gli aggettivi sempre esatti nel rendere le emozioni. Come hai raggiunto questa mediazione così difficile fra dionisiaco e apollineo nei tuoi versi?
F – A dire il vero, è qualcosa che è venuto da sé. Da un po’ di tempo la mia scrittura evolve verso uno stile che, secondo la distinzione nietzscheana, si potrebbe definire ‘apollineo’. Nel mio caso questo coincide con una particolare attenzione alla “misura” (sia sul piano metrico-ritmico sia nel senso di una rimozione del superfluo). Trovo che questo modo di rendere in maniera asciutta, essenziale e, come giustamente dici tu “controllata”, il materiale più caotico e dirompente anziché mitigarne l’impatto lo rafforzi. Troppi fronzoli o sottolineature emotive rischierebbero di far scivolare i versi nel patetismo e nella retorica.
N – Nella postfazione, l’editrice Maria Gervasio ha fatto riferimento al fatto che consideri questo tuo ultimo lavoro come l’opera conclusiva della cosiddetta “trilogia del lutto”: un percorso cominciato con “Ex Madre” (Arcipelago Itaca – 2022), proseguito con “L” (Gattomerlino edizioni – 2024) e conclusosi ora con Bohumil. Quanto delle opere precedenti c’è in questo libro e quanto invece ti addentri in un terreno nuovo e inesplorato?
F – Nel libro “L” avevo già inserito alcuni sogni, come sorta di intermezzi a scandire le varie poesie. Si trattava in tutto di 13 componimenti, in cui il materiale onirico veniva generalmente posto in relazione con il mio vissuto e con le impressioni della veglia. Se “Ex Madre” registrava l’irrompere del trauma e “L” provava a ricomporre la frattura, questo libro, scritto in un periodo di apparente ritorno alla normalità, svela il risvolto della medaglia. Il dolore, il senso di colpa, lo spaesamento e molto altro (non voglio interpretare troppo), soffocati nella veglia, hanno trovato forme fantasiose nel sogno, intrecciandosi ai “resti diurni” e probabilmente ad altre dinamiche psicologiche che non sarei in grado di definire. È la prima volta che utilizzo questa modalità di scrittura in maniera programmatica per un intero volume, tanto è vero che, appena il libro è stato pubblicato, ho avvertito una sorta di rigetto: non sembrava scritto da me. Considero questo lavoro come il capitolo conclusivo della trilogia del lutto, nella speranza di allontanarmi presto da questa tematica ossessiva. Con ogni probabilità la frequenza dei miei “sogni vividi” in questi ultimi anni dipende dalla depressione e dall’uso di psicofarmaci. Nel sonno porto avanti l’elaborazione del lutto per il suicidio di mio figlio, che ormai nella veglia occupa uno spazio molto ridotto dal momento che, avendo continuamente a che fare con gli altri, mi trovo costretta, non dico a indossare una maschera, ma a lasciare quasi sempre nell’ombra una parte di me.
Sto seduta e cammino
sulla spiaggia innevata
ora vado alla casa
coi muri di legno e il cerchio
di mani intorno al tepore
ma lei mi aspetta altrove.
Non posso deluderla
e deludo loro. Riconosco
un uomo sulla quarantina
con barba e capelli bianchi
bagnato dall’acqua di mare
non so chi sia gli chiedo
quanti anni ha tua figlia
ormai, dice ventun’anni
ed è bella tanto bella
come quand’era viva.
*
Ho ucciso
la giovane donna e il bambino
li ho uccisi
e non è stato un incidente.
Non è in sé, diranno
è per via
del suicidio di suo figlio.
Io intanto mi ripeto:
come stai adesso?
Adesso finalmente
morirai?
*
La moglie del mio compagno
è tornata dall’invisibile a trovarlo
sono insieme sul terrazzo, mi affaccio
lei mi guarda, io me ne vado
lui mi crede in preda alla gelosia
ci sediamo su una panchina al parco
volevo una famiglia, gli dico, così
ho trasformato la mia ex migliore amica
ormai fanatica religiosa, in un albero.
È aperto il corpo
ad accogliere il mondo.
Lo lascio sul pavimento
per andare a camminare
sull’orizzonte color ocra
la mano rimpicciolita
in quella della donna
col vestito a fiori
e intorno
tutto un colare
di colori a olio.
“Puoi” dico al mio compagno
a letto, ma parlo all’angelo
bianco marmo steso al suo fianco
che ora pigramente si solleva
e mi va a prendere.
No Comments