
05 Mar Il mare nascosto. In dialogo con Luca Calvetta
a cura di Ivana Margarese e Antonio Napolitano
Il mare nascosto di Luca Calvetta è un film che unisce cinema, teatro e documentario. Liberamente ispirato al racconto di Saint-Exupéry, Il piccolo principe, racconta il viaggio di un giovane immigrato attraverso una geografia emozionale composta da volti, storie, speranze e ferite in un luogo del Sud Italia dando spazio a una riflessione sul potere salvifico dell’arte.
Ivana: Come nasce il progetto di realizzare Il mare nascosto e di farne un film corale in ogni tassello dialoga con gli altri e lo stesso spettatore viene coinvolto a partecipare?
Il mare nascosto nasce dai luoghi, dal desiderio di raccontare la bellezza e le ferite di una terra lontana, spesso dimenticata o rinchiusa in visioni stereotipate. Dalla volontà di trasformare il nostro Sud, e ogni Sud del mondo, in una condizione interiore, quasi metafisica, prima ancora che in una mera coordinata geografica. Non a caso, pur essendo interamente girato in Calabria, nel film non ci sono nomi, indicazioni, neppure i personaggi hanno un nome, proprio perché volevo assumessero una valenza universale, perché le voci, il coro dei personaggi e dei paesaggi, non fossero circondate da una frontiera rigida, da un’identità definitivamente chiusa: le parole infatti, i tempi del racconto, gli scenari si sovrappongono, la realtà e l’immaginazione si confondono. Il mare nascosto ha una forma complessa, frammentata, non intende spiegare ogni passaggio, proprio per lasciare posto allo spettatore, alla sua sensibilità, perché possa compiere, insieme ai personaggi, un viaggio nei luoghi e, spero, dentro se stesso. Questo film in effetti vuole raccontare il percorso che ciascuno di noi deve affrontare per scoprire la propria identità e quanto le nostre radici stiano non solo dietro di noi, nel nostro passato, ma anche davanti a noi, nel cielo e non solo in terra.
Antonio: Il mare nascosto è un film che da un punto di vista produttivo non ha usufruito di alcun finanziamento pubblico. In un ecosistema cinematografico come quello italiano, in cui esistono case di produzione anche di grandi dimensioni che spesso non possono fare a meno del sostegno pubblico, produrre un film in modo autonomo non è una sfida da poco, in quanto diverse possono essere le difficoltà circa l’approvvigionamento finanziario, gli aspetti organizzativi, amministrativi e burocratici. Quindi, quali sono stati gli aspetti della produzione più sfidanti?
Il mare nascosto è un film auto prodotto, realizzato con strumenti amatoriali e da non professionisti, ad eccezione del fonico di presa diretta e di parte degli attori, che sono invece dei grandissimi artisti. Una vera sfida produttiva, in altre parole, perché, come hai ricordato, non ho fatto ricorso a finanziamenti pubblici o a società di produzione. Io stesso non vengo dal mondo del cinema e ho quindi dovuto imparare ogni giorno a fare mille cose, dal copione alle scenografie, dalla logistica alle luci, oltre naturalmente alla regia… un percorso davvero faticoso, ma straordinario. Sarebbe stato in effetti più semplice seguire la strada consueta, istituzionale, ma non avrei mai goduto della stessa libertà di cui avevo bisogno per questo film. Nessuno, per come funziona attualmente il mondo del cinema, e per la totale assenza di coraggio -mi permetto di dire- di chi decide produzioni e finanziamenti, avrebbe mai accolto un progetto tanto complesso, specie da uno sconosciuto come sono io. Tutto è stato sfidante quindi, perché le risorse a disposizione erano ridicole rispetto a quelle che normalmente servono per fare cinema, ma ognuno dei limiti incontrati mi ha permesso di inventare soluzioni e percorrere, credo, strade meno ovvie. Non avrei mai potuto rinunciare alla mia voce, anche solo per sbagliare. Il mare nascosto non esisterebbe però senza la generosità delle tante persone, dalla fotografia alle musiche, dagli attori agli amici che ci hanno aiutato, che hanno sposato il progetto. Ed io non smetterò mai di ringraziarli per questo. Penso che tanta di questa energia e umanità arrivino anche a chi guarda il film.
Ivana: Lo spazio teatrale nel tuo film ha un ruolo molto importante e contribuisce a creare una maggiore prossimità rispetto a ciò che ci viene raccontato. Da cosa deriva questa tua scelta?
Il mare nascosto affronta, tra i diversi temi, quello delle migrazioni attraverso il viaggio e gli incontri di un ragazzo sbarcato sulle nostre coste. La sua storia è quindi plasmata dal concetto di confine, dalla realtà concreta, drammatica dei confini. Tutto il film vuole essere (anche) una riflessione sul potere dell’arte di trasmutare la realtà, di illuminarla o nasconderla, e il narratore infatti, magistralmente interpretato da Ascanio Celestini, più volte si interroga sul significato stesso del suo raccontare, ma soprattutto dichiara, quasi fosse un manifesto poetico e politico, di voler aprire quelle frontiere, quei confini, che tanto hanno determinato la traiettoria del ragazzo di cui ripercorre (inventa?) la storia. I confini geografici quindi, ma ancora di più i confini simbolici, tra i generi e le discipline (cinema, documentario, teatro, pittura), tra i personaggi, tra i luoghi, tra passato e presente, tra coscienza e sogno. Lo spazio chiuso del teatro si apre dunque sull’infinito del mare e dei luoghi. Come se l’arte potesse in qualche modo restituire libertà ai personaggi (e forse a ciascuno di noi).
Antonio: Nel panorama cinematografico capita sempre più spesso di imbattersi in opere che utilizzino codici e linguaggi che afferiscono a generi e anche media differenti, dando origine a forme ibride che cercano nuove strade.
Ne Il mare nascosto assistiamo non solo a sconfinamenti nel teatro, nella letteratura, nell’arte, ma ad un processo in cui il cinema di finzione e le forme del documentario sono indistinguibili; d’altronde lo stesso Godard affermava che “un buon film di finzione deve anche essere un documentario su qualcosa” (penso al gioco di specchi tra realtà e finzione che si attiva con l’uso di un attore di cinema come Marco Leonardi nei panni di un pastore che offre sia un punto di vista interno al racconto, sia una versione di sé come “personaggio intervistato”, innescando un inedito processo in cui la finzione sembra oggettivare se stessa, attribuendosi uno statuto di “realtà”).Come pensi che questi elementi prettamente linguistici percorrano il film e verso quale direzione?
Come dicevo prima, tutto il film vuole rompere le barriere, aprire i confini, tra i luoghi e tra le discipline, ma anche tra la rappresentazione e la realtà, fino a rendere, come hai sottolineato, indistinguibili le due dimensioni. Tutta la narrazione è un costante viaggio di andata e ritorno tra sfera interiore e mondo esterno, un viaggio appunto fisico e simbolico. A ciascuno di stabilire cosa è reale e cosa no, o forse di abbandonare la necessità stessa di deciderlo.
Questo è un tema tipicamente postmoderno: la realtà non può più intendersi come un dato ma come un processo aperto, un’equazione da risolvere. A maggior ragione in tempi di social e intelligenza artificiale. Si tratta però anche di una questione artistica e in questo senso politica: cosa significa raccontare? Quali implicazioni di potere porta con sé? Credo che i grandi film o i grandi romanzi non raccontino soltanto storie ma interroghino allo stesso tempo la propria forma. Mi permetto di aggiungere, a questo proposito, che uno dei temi centrali del film è per me la questione di genere. Per quanto tempo infatti non è stata riconosciuta soggettività alle donne, anche nell’arte, e la libertà di raccontarsi? Quanto a lungo l’uomo occidentale ha rinchiuso le figure altre, le donne appunto, lo straniero, nella propria narrazione, gerarchica, disciplinante, escludente? Ne Il mare nascosto ho provato a rappresentare anche questa dinamica di potere, io, uomo bianco occidentale. Non so se ci sono riuscito ma non potevo, per onestà (e studi politici), eludere la domanda.
Ivana: Ne Il mare nascosto c’è una riflessione sulla vulnerabilità e sulla bellezza che torna più volte anche sulle orme deIlpiccolo principedi Antoine de Saint-Exupéry. C’è anche un’attenzione alla cura, alle parole come luoghi di contatto e all’amicizia. Ti chiederei perché la scelta di un libro così noto e al contempo forse disconosciuto come Il piccolo principe?
Il piccolo principe è stato un pretesto narrativo per raccontare molti luoghi, volti, storie, per compiere un viaggio interiore e fisico. È una favola profonda e misteriosa che amo, come tutti, fin da bambino. Mi sono permesso però di trasporla nella realtà contemporanea e rovesciarla, riscriverla, cambiarne la prospettiva, adottando lo sguardo degli ultimi, dei vinti, camminando in qualche modo sui margini. Per restituire, come dice il narratore del film, ai senza-voce parole che non hanno mai avuto. Il mare nascosto è un’opera poetica e politica al contempo. Prova ad interrogarsi, come detto, sullo statuto dell’arte, sul potere stesso della parola che può essere luogo di incontro e cura, certo, ma anche, talvolta, impresa coloniale, prevaricazione.
I luoghi che vediamo nel film, le figure che vi abitano, sono spesso feriti, fragili, ambivalenti, ma su ognuno di essi ho cercato di posare uno sguardo pieno di compassione, che non li giudicasse. Perché ovunque si nasconde la bellezza, anche nell’apparente degrado, nell’ordinario, nei margini appunto, perché, come dice uno dei personaggi (interpretato da Marco Leonardi), ovunque possiamo trovare “la vita intera, tutta la vita possibile”. C’è qualcosa in questo che mi viene dall’amore per Anna Maria Ortese e in particolare per il suo Corpo celeste.
Ivana: Verso la fine del film Ascanio Celestini dice una frase che mi ha molto colpita: Ovunque qualcosa si interrompe, qualcosa può nascere ancora. Vorrei riprenderla con te.
Quella frase riprende e, in qualche modo, fa germogliare un seme, non l’unico, annunciato all’inizio del racconto, in una specie di movimento circolare in cui tutti i sentieri aperti e dispersi finiscono con il ritornare ed incontrarsi, illuminati, forse, da una nuova consapevolezza. Senza svelare troppo, quella frase rievoca le parole che Celestini pronuncia all’inizio del film parlando del Sud: “…Perché non è un luogo il Sud – dice -, è ovunque qualcosa si interrompe”. Solo alla fine del complesso percorso seguito dai personaggi capiremo cosa realmente voglia dire. Più in generale però, credo che tutti noi siamo paesaggi frammentati, mosaici incompleti, contraddittori, e che procediamo attraverso evoluzioni incerte, ondivaghe, non lineari: in questo risiede per me un’immensa ricchezza, come ci fosse in ogni ferita, in ogni interruzione, una promessa di luce, una possibilità di avvenire.
Antonio: Il mare nascosto è un’opera che ha avuto una buona circolazione festivaliera ottenendo anche vari riconoscimenti e premi, ma per un giovane regista è importante che il suo film possa incontrare un pubblico il più vasto possibile e ciò è possibile solo grazie ad un canale di distribuzione, che abbia come sbocco la sala o come sempre più spesso accade una piattaforma digitale. Cosa ci puoi dire in merito e quale tipo di distribuzione pensi debba avere un’opera cinematografica oggi, in un contesto di consumo in cui la fruizione è profondamente cambiata con l’avvento dei nuovi player digitali?
Il mare nascosto, proprio per il suo percorso inusuale, ha ricevuto premi che non avrei neppure osato sperare e ne sono felice ovviamente, soprattutto però ha raggiunto ed è stato accolto da molte persone, nei festival, e vedere le loro emozioni, condividerle, è stato per me un vero regalo. Sto proprio in questi giorni organizzando la distribuzione del film, prima in sala e poi in streaming, ma non posso ancora dire nulla. Spero in ogni caso possa arrivare a tante persone e che possa farlo in maniera coerente con il suo spirito, in maniera poetica e non convenzionale.
Rispetto alla tua domanda, credo esista una magia nel vedere un film in sala (nell’uscire di casa e in qualche modo da se stessi, incontrando gli altri) che difficilmente può trovarsi altrove, ma non voglio assumere una posizione dogmatica: qualunque sia il percorso di un’opera conta che arrivi al pubblico e che rimanga arte, che non sia consolatoria e non trasformi anche chi guarda in un bene di consumo. Non ho nulla contro il commercio, sempre legittimo e anzi necessario, purché non lo si confonda con l’arte. Diceva un filosofo che amo molto, Castoriadis, che l’arte è una finestra aperta sul caos, mentre altre istituzioni, come la religione, ad esempio -nella sua visione-, sono veli che nascondono quel caos… Ecco, io penso che questo importa: proporre l’ambivalenza del mondo e delle nostre vite, la loro complessità, la loro bellezza, il dubbio, il domandare ininterrotto… Che questo poi passi da uno strumento o un altro è per me secondario.
Antonio: Lungo il film il personaggio di Celestini riprende un brano da un saggio Pour Sganarelle di Romain Gary il quale recita: “la cultura è quando le sinfonie, le teorie del cosmo, la matematica, i musei esigono la fine della fame (…); la cultura è quello che libera l’uomo dall’asservimento al suo dato naturale perché (…) la sola cosa che tenta gli uomini da quando esistono è ciò che non sono, ciò che non esiste, che non raggiungeranno e che non smetteranno mai di inseguire creandosi da loro stessi il cammino”. In questo frammento sembra che si crei uno spazio in cui l’opera cinematografica riflette su se stessa e, a partire dalle parole di Gary, per estensione su cosa sia non solo la cultura, ma il senso di un’opera d’arte e la sua natura rivoluzionaria, utopistica, come processo creativo totale. Quale senso ha questo riferimento nell’economia del racconto?
Questa citazione di Gary, autore per me molto importante, e che come me ha attraversato nazioni, lingue, culture, rappresenta proprio quello che abbiamo appena detto. E vi aggiunge una dimensione per così dire politica. Nel citarlo ho voluto in effetti dichiarare che non esiste (non dovrebbe esistere) arte, progetto, bellezza, che abbia diritto di soggiogare e dimenticare l’umano. Diceva Arendt, parlando del progetto totalitario nazista, che gli uomini, e non l’Uomo, abitano la terra, e questo vuol dire non sacrificare mai la molteplicità, la fragilità, delle persone in nome di astrazioni considerate superiori, si tratti di utopie politiche, artistiche o religiose, del profitto o della patria.
Tentazione sempre vicina però, a cui cede lo stesso narratore del film innescando la reazione di un altro personaggio, che vuole invece mantenere la propria soggettività e rivendica un difficile equilibrio tra giustizia e bellezza, tra racconto e libertà. Chi vedrà Il mare nascosto scoprirà se questo equilibrio sia possibile o meno. Certamente, nel realizzarlo, io ho provato a restare fedele, come direbbe Camus, alla bellezza e agli oppressi.
Trailer del film: https://vimeo.com/954445660
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