09 Set In ascolto di una scelta. Luciano Ligabò: lettere dalla resistenza a Verona
di Maddalena Cavalleri
Immagine in copertina di Aldo Borgonzoni
Verona, 26 luglio 1943 – XXI° ed ultimo. “Annunziata carissima, nelle grandi gioie e nei grandi dolori si sente infinitamente di più la lontananza delle persone care. Così stamattina quando ho sentito la grande notizia ho tanto desiderato di esprimere con te la mia contentezza”.
Quando ho aperto, a caso, il libro Scritti e documenti sulla Resistenza veronese (1943-45) a cura di Giovanni Dean, sono state queste le parole che mi sono venute incontro. La loro delicatezza e garbo mi hanno invitato, come un ospite inatteso, ad accomodarmi su una sedia della bella sala Veronensia della Biblioteca Civica di Verona, per sostare in loro ascolto. Sono rimasta a leggere fino a che non ho terminato l’ottantina di pagine, in formato A4, che compongono la parte del volume dedicata a Luciano Ligabò (1912-1944), farmacista e direttore (per pochissimo) del Museo di Storia Naturale di Verona.
Era il 2016. In quel momento, non stavo cercando nulla sul periodo della Resistenza, stavo invece cercando libri che mi restituissero la storia del Fascismo a Verona e dintorni: gli anni Venti e Trenta, prima dell’entrata in guerra del 1940. Preciso che non sono una storica, mi spingeva la curiosità di dare una cornice alle tante lettere dei nonni (paterni e materni) emerse dai diversi sgomberi di case, avvenuti dopo la morte di mia prozia e di mio padre. All’epoca mia madre era ancora viva. Quando veniva a trovarmi, gliene leggevo qualcuna. Si commuoveva. Non le aveva mai lette. Non sapeva nemmeno che esistessero. Aveva perso il padre a sei anni, e la madre a ventisette. Accoglievo tra le mani un dono prezioso. Mi era chiaro che avrei dovuto custodirlo.
Quel giorno in biblioteca, ero stata attirata dalla copertina simile a quella della mia tesi di laurea in Lingue e Letterature straniere: caratteri stampati in oro su stoffa di lino verde salvia. Il nome di Luciano Ligabò mi era del tutto sconosciuto. Il mio incontro con lui, e la sua Annunziata, è stato un caso. Tutte le lettere di mio nonno paterno iniziano con “Rita mia carissima”, un incipit simile all’ “Annunziata carissima”. Quel superlativo assoluto di “cara” mi aveva catturato.
Tornata a casa, ne avevo parlato a mio marito, Lorenzo Gobbi. Gli ho letto dei passi, lamentando che quest’uomo fosse praticamente sconosciuto a Verona, se non dagli studiosi della Resistenza locale. Lo stesso destino è toccato ad altri e altre che hanno compiuto scelte difficili in quegli anni bui della nostra storia. Ci vuole tempo. In fondo sono trascorsi solo 80 anni dalla fine della guerra. Ogni generazione deve passare il testimone a quella che viene, perché il passato affiori nella sua complessità. Mi sono sentita, quindi, di raccogliere il testimone.
A Verona esiste una via a lui dedicata lungo la circonvallazione. L’ho scoperto quel pomeriggio del 2016. Da allora, ho proseguito il mio studio sul periodo del Fascismo a Verona e provincia senza più occuparmi di Luciano Ligabò fino a che, dopo circa sette anni, su invito di Lorenzo, ho deciso di proporre un percorso attraverso i suoi scritti per un ciclo di incontri Il Viaggio dell’anima al Castello di Montorio. Ho chiesto al giovane compositore Gian Maria Rizzardi di tradurre in musica l’euforia, l’incertezza e il dramma di quei mesi. Gli ho dato il materiale da studiare e insieme abbiamo seguito i passi del giovane ufficiale trentenne per le vie di Verona, ne abbiamo ascoltato le ansie, le paure, l’amore per la moglie e per il piccolo Guido, la fede, fino alla sofferta decisione di raggiungere i “ribelli” sui Monti Lessini. Dopo un anno, in accordo con l’associazione che gestisce il Castello, ho riproposto lo stesso incontro cambiandone il titolo In ascolto di una scelta. Perché Ligabò a un certo punto sceglie. Non sceglie da solo. Sua moglie è con lui. Il suocero è con lui. La famiglia è con lui: la madre e la sorella sono ancora vive.
Con lo scoppio della guerra, era stato arruolato nell’esercito come ufficiale sanitario all’ospedale militare. Non era al fronte. Poteva aspettare, prendere tempo. Invece no. Si organizza e con la scusa di andare a svolgere studi botanici sui monti, nel giugno del ’44, raggiunge la Brigata Garibaldina Ateo Garemi in Lessinia. Lì assumerà il nome di battaglia dott. Luli, attinto dalle iniziali del cognome e del nome.
Più volte ho provato a immaginare lo stato d’animo di Annunziata, giovane donna innamorata con un bimbo piccolo e in progetto di averne un altro. Ho saputo solo di recente da sua sorella minore, più che centenaria, che Annunziata, dopo la guerra, si è impegnata in politica nella Democrazia Cristiana. Forse, voleva dare un senso alla sua tragedia e contribuire alla ricostruzione di un Paese e di se stessa. È morta con il figlio ormai grande, divenuto medico a Milano. Le lettere riportate da Dean sono del marito, di lei non c’è nulla. Come lei abbia vissuto il suo “dopo” da sola, con il figlio piccolo e il dolore appiccicato dentro, lo posso solo immaginare e intuire dal racconto che mi ha restituito la sorella. Il dopo guerra non deve essere stato affatto facile. Né per lei né per molti altri.
Il diario epistolare, pubblicato nel 1982 da Dean (e mai più ristampato), va dal 26 luglio 1943 al 13 luglio del ’44. Dalla metà di luglio e per tutto il mese di agosto Ligabò diventa telegrafico: poche righe per fissare gli eventi della giornata, con l’intenzione di riprenderli non appena possibile.
Le lettere seguono una scansione temporale e interiore tripartita. A luglio del 43, l’entusiasmo per la destituzione del Fascismo (26,27 luglio). A settembre, l’incertezza che si tramuta in angoscia dopo l’armistizio dell’8 settembre fino a trasformarsi in desiderio di fuga (9-19 settembre). A giugno del ’44, l’arrivo sui monti, l’attesa per incontrare i ribelli e a luglio l’entrata in azione con la brigata Garemi (12 giugno 1944-13 luglio 1944). Poi, solo brevissime note fino alla morte, avvenuta il 9 settembre 1944, a 32 anni, a Selva di Trissino, in provincia di Vicenza.
Ligabò scrive perché desidera informare la moglie su tutto. Le esprime stati d’animo, incertezze e timori, la aggiorna sugli amici, sulla giornata, su chi incontra, cosa vede e sente in caserma e in città. Racconta il suo ricovero presso l’ospedale militare per febbre, il caos tra i soldati dopo il discorso del Fürher alla radio, la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e la sua voce diffusa per radio. Le pone domande sul cosa fare e su come affrontare i giorni futuri. Ligabò le racconta della presenza dei tedeschi in città, dei carri armati che attraversano il centro storico, dei morti e feriti sulla strada che è chiamato a soccorrere, dei soldati caricati sui camion diretti in Germania, di qualche tentativo di rivolta in una caserma, del “ridicolo giuramento” che in cento soldati saranno costretti a fare in caserma, di cui si pentirà e si vergognerà amaramente:
“Perché non ho resistito allora! Soprattutto certamente era il pensiero che avrei potuto essere ancor utile alla nostra causa di libertà assai più in Italia che non in Germania ove certamente sarei stato trasportato. E poi… il ridicolo giuramento sancito con una parola sconcia e la mia firma irriconoscibile sotto il pezzo di carta contenente una infamante proposta”.
A giugno, è finalmente sui monti. Il silenzio, l’attesa, i pensieri rivolti alla sua Annunziata, al figlioletto e all’Italia, il monotono verso delle grole, le ricerche nelle pozze, le preghiere, il rosario.
Il 26 luglio, dopo aver sentito alla radio la notizia delle dimissioni di Benito Mussolini da Capo del Governo, scrive alla moglie. È felicissimo al punto che sulla data scrive “ultimo”. È certo che l’Era fascista è ormai finita. Il giorno dopo riprende in mano la penna per scrivere ad Annunziata, quasi per riflettere con lei:
“Ora bisogna cercar di agire con calma e non lasciarsi trasportare né da facili entusiasmi né da desideri di vendette personali. Bisogna che non nascano tumulti perché l’ora è grave. Fra dieci giorni si potrà dire qualche cosa, ora bisogna attendere gli eventi e tacere obbedendo ai nuovi capi che certamente agiscono non per interesse di partito ma per amore di Patria”.
Sin da subito, Ligabò sente l’esigenza di annotare ciò che sta accadendo intorno a lui. Non solo per condividere con la moglie entusiasmi e timori, ma anche per chiarire a se stesso i propri stati d’animo. Come se la scrittura lo aiutasse a trovare le parole per comprendere la portata storica di quei giorni e riflettere sul da farsi. Lo scrivere lo aiuta a dare un nome alle emozioni, a scandirle, a sentirsi meno solo mentre la moglie è via.
È consapevole di vivere giorni decisivi. Si sente sciocco a pensare alla “bicicletta un po’ dura”, ora che stanno accadendo eventi importanti:
“Ma lo sai Annunziata che faccio una fatica del diavolo a raccontarti queste piccole sciocchezze! Il mio pensiero è continuamente indirizzato ai grandi eventi che si stanno preparando per la nostra Italia e tutto ciò che esula da questi mi sembrano sciocchezze risibili”.
Di luglio ci restano solo due lettere. Bisogna attendere il 9 settembre per averne altre. L’esigenza di Ligabò non è mutata: desidera sentire la moglie vicina. Le lettere diverranno un diario tutto per lei.
“Annunziata carissima, non so né quando né come ti potrò far pervenire questa mia lettera che continuerò finché mi sarà possibile a guisa di diario così in caso di qualsiasi evenienza potrai sapere di me tutto quello che ho fatto e pensato in questi ultimi giorni. Ho scelto per scriverti appunto questi cari foglietti che in altri tempi mi sono serviti per farti giungere dettagliate notizie delle mie azioni durante la giornata”.
Il 23 ottobre del 1940 la Royal Air Force sgancia una bomba nella zona est di Verona vicino a dove i due giovani sposi sono andati ad abitare (oggi zona universitaria). Dopo la nascita del piccolo Guido (1941), la moglie sfolla in montagna dai suoceri a Selva di Progno, sui monti Lessini.
I due giovani sono sposati da tre anni. Si sono scambiati gli anelli in chiesa. Sono entrambi cattolici praticanti. Non è un comunista come lo sono molti della Brigata Ateo Garemi. È un cattolico lucido e consapevole del tempo che vive. Ha frequentato gli scout e l’Azione Cattolica. È un giovane universitario diciannovenne, quando Mussolini emana il decreto per lo scioglimento dell’Azione Cattolica (1931). La polizia scaligera è imbarazzata quando deve andare a perquisire le sedi per ordine del questore. I giovani cattolici continuano a radunarsi nelle canoniche, nelle sagrestie, nelle parrocchie. Nei giorni tumultuosi di settembre del ’43, Ligabò scrive di essere passato dalla biblioteca della chiesa di San’Eufemia per vedere i suoi amici. Probabile che lo spirito antifascista lo abbia coltivato anche in parrocchia.
Non deve avere avuto una vita facile: orfano di padre a soli 6 anni. Sua madre si occupa di lui e della sua sorellina. È un ragazzo brillante: doppio diploma di maturità: scientifica e di ragioneria; doppia laurea in Scienze naturali e in Farmacia. Annunziata Picotti non è da meno, considerato il periodo storico per le donne, ha una laurea in Lettere conseguita all’Università di Pisa dove il padre è ordinario di Storia medievale. Nel 1940 Ligabò vince il concorso di direttore del Museo di Storia Naturale di Verona e si sposa poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Nel ’41 viene chiamato alle armi. Scriverà:
“Mi dispiacerebbe morire per una causa che non sento mia, in una guerra che non ho voluto né desiderato”.
Grazie alla laurea in Farmacia viene destinato alla farmacia dell’ospedale militare di Verona, zona Porta Palio. Nel suo diario vi sono tracce della sua fede: un rosario, una processione, una preghiera con il sacerdote venuto a benedire il bestiame alla malga. Trascrivo i suoi ultimi pensieri del suo diario. Poi, solo brevi frasi telegrafiche.
Il 13 luglio 1944 annota “Verso mezzogiorno è arrivato Bruno col pacchetto ed il bigliettino invero molto laconico di Annunziata. Nel pacchetto c’erano una candela dei grissini e, graditissima, la mia corona del Rosario. Dopo pranzo Sergio, Berto e Pino ci han tenuto delle brevi concioni. Commovente è stato principalmente il giuramento tacito che abbiamo fatto di fedeltà alla nostra causa, alla liberazione cioè della nostra patria dal nemico interno ed esterno al di sopra di ogni rivalità di partito e concezione ideologica del dopoguerra”.
Parole che andrebbero impresse nella coscienza di ogni italiano.
Ho avuto l’enorme piacere di conoscere il figlio Guido e la zia (sorella di Annunziata). Sono venuti all’incontro In ascolto di una scelta. Si sono tenuti per mano tutto il tempo. L’emozione era fortissima e ha coinvolto tutto il pubblico in sala. Ho concluso l’incontro proponendo una testimonianza di chi aveva conosciuto il dott. Luli e che ho trovato nel volume curato da Giovanni Dean.
“Santa Caderbe […] rammenta soprattutto la sollecitudine e la bravura, di cui il dottor Luli diede prova nel curare di un’infezione al piede la figliola Maddalena. Afferma che il dottor Luli e Adamo sarebbero scampati alla morte, come riuscirono gli altri partigiani del comando, se non si fossero preoccupati di salvare Macario. Luli stringeva in una mano la corona del rosario e il suo corpo giaceva dinanzi a quello di Macario, quasi in un supremo tentativo di proteggerlo dal fuoco nemico”.
Resta per me il mistero della libertà delle scelte individuali. Con il senno di poi non si può capire fino in fondo la tragicità di una scelta. Luciano Ligabò era consapevole dei rischi che correva e lo era anche sua moglie. Il dottor Guido Ligabò, il loro “figlioletto” incontrato nelle lettere, non smetteva di ringraziarci alla fine dell’incontro. Avevamo dato voce a suo padre e, indirettamente, a sua madre. Per me è stata una gioia grande che ha dato senso a molto nella mia vita.
Perché è di senso che abbiamo tutti bisogno.
Maddalena Cavalleri, Verona 6 settembre 2024
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