Se devo essere una mela. Dialogo con Emma Saponaro

 

a cura di Ivana Margarese 

Se devo essere una mela è il nuovo romanzo di Emma Saponaro pubblicato da Les Flaneurs Edizioni, con la prefazione di Marina Pierri e la copertina realizzata da Alessandro Arrigo. Il titolo fa riferimento alla metafora platonica, contenuta nel Simposio, secondo la quale gli esseri umani sono mezze mele che vivono in cerca della loro metà mancante.
Il romanzo racconta in chiave ironica il percorso di consapevolezza  di una giovane donna, Rebecca, che comincia a poco a poco a osservare con occhi nuovi ciò che la circonda e a mettere in discussione la relazione con il marito, Leopoldo, un professore di Filosofia, che assai diverso dall’immagine che la donna aveva custodito e amato si rivela per lei come un ostacolo alla sua autentica crescita personale.
Inizia così per Rebecca, e per il lettore, un divertente viaggio filosofico che attraverso l’incontro con differenti personaggi condurrà alla scoperta di molteplici punti di vista e di inaspettate possibilità.

 

Se devo essere una mela è un romanzo coraggioso. Non ci restituisce un’eroina vincente ma racconta piuttosto il travagliato passaggio che la conduce a una nuova consapevolezza. Come è nata questa idea? L’avevi già in mente da tempo?

L’idea è nata per dare voce alle storie raccontate da tante donne. Non so perché ma ispiro fiducia e mi capita spesso di ricevere le confessioni di chi vive un disagio o si sente repressa o vorrebbe una vita diversa. Del resto, ciò a cui tengo molto e che accomuna questo mio romanzo con il primo, un noir psicologico quindi di genere diverso, è il desiderio di provare a dare forza a chi ha bisogno di essere incoraggiato per migliorare la propria esistenza. Quindi, è vero che racconto il travaglio di un passaggio che conduce a nuova consapevolezza, ma la mia Eroina parte proprio da quella consapevolezza per rispettarsi e realizzarsi. E secondo me questo fa di lei una vincente, almeno spero.

Da cosa nasce l’attenzione alla filosofia nel romanzo?

Psicologia e Filosofia sono la mia passione. Per quanto riguarda la Filosofia, è mia convinzione che dovrebbe essere materia obbligatoria per tutte le scuole. Per capire il pensiero altrui, è necessario lo sforzo di accantonare il proprio, in un certo senso far fare al proprio ego un passo indietro per immergersi nell’altro. Una convinzione ancora più consolidata oggi che viviamo in un’epoca in cui l’individualismo ci ha allontanati dalla considerazione dell’altro, e di conseguenza ci ha disabituati alla solidarietà, alla condivisione e quindi anche alla politica. La Filosofia è una palestra per essere empatici e meno egocentrici.

Ti propongo quattro passi del tuo romanzo da commentare a cominciare da un brano che segna un passaggio da una volontà di cura della persona amata a una volontà di liberazione da ciò che oramai si avverte come peso: “ Sì, vabbè, però io che c’entro? Mica posso pagare le colpe di una cattiva madre o la costrizione soffocante di un collegio. Io non ho colpa. Io non ho colpa. Io non ho colpa. E non voglio essere né il capro espiatorio né tantomeno il contenitore di tutte le sue presuntuose supposizioni su quello che crede essere un mondo affettivo, che poi affettivo non è. Ritengo solo che tutta la sua storia abbia sortito un pessimo frutto: un uomo sbagliato”.

Poldo il marito è solo “un uomo sbagliato”. Questo cambio di visione a tuo parere cosa può dirci sulle nostre relazioni?

Poldo non è un uomo sbagliato, ma un uomo sbagliato per Rebecca. E come nella maggior parte dei casi è la donna che fa emergere le problematiche di coppia. L’uomo è sempre più restio a mettere tutto in discussione. Perfino se si rende conto che di amore non è rimasto granché, preferisce mettere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla. Il cambio di visione è determinato dal fatto che il problema emerge e Rebecca lo accetta, lo analizza, vuole sapere e capire. La domanda è: ci si innamora veramente? Ci si innamora della persona o delle sue idee o di un comportamento che abbiamo apprezzato, magari in un determinato contesto? E, se è così, basta per nutrire una relazione d’amore? Rebecca, per esempio, si è innamorata delle idee del suo professore di Filosofia. Lo ha sposato ma a un certo punto si rende conto di non esser mai stata felice, perché le idee delle quali si è innamorata sono rimaste fuori dal ménage familiare. Il cambio di visione, quindi, è inevitabile quando ci si accosta all’amore attraverso la convenzione o l’etichetta, dannose all’amore stesso.
L’amore è sentire e basta, tutto il resto è superfluo e tossico perfino. Amare senza altro fine se non quello di stare bene con una persona, stimarla, rispettarla e sostenerla, senza sentirsi da questa giudicate, rimproverate o mortificate, questo dovrebbe essere il nostro obiettivo.

Pensate alle nostre nonne. Andavano d’amore e d’accordo con il marito o piuttosto tolleravano nel silenzio del loro vincolo e nella sudditanza tacitamente avversata solo perché non lavoravano e quindi non percepivano uno stipendio? Per non parlare dell’epoca in cui vivevano. Separazione, di nuovo zitelle, beffeggiate dalla malevolenza delle galline del vicinato che sotto sotto covavano puro distillato di invidia, altro che uova. Al passare della povera disgraziata si sarebbero date una gomitata scambiandosi ridicole occhiatacce d’intesa pronte a bersagliare l’ignara con proiettili farciti di acredine esplosiva. Guardala là come se la gode ora. Secondo te, ha l’amante? Certo che ha l’amante altrimenti perché ha lasciato il marito? Donnaccia. Ma non si vergogna? Sai che ieri ho visto il marito con una biondina al caffè del sor Annibale? Tinta? Cosa? La biondina, era tinta? Che ne so io, ma lui non perde tempo. Beh, è un bell’uomo, fa bene. No. Sì. Mah. Già. Invidia, solo questo”.

Parlare del sentimento dell’invidia è spesso un tabù. Eppure può essere al tempo stesso un indicatore delle nostre gabbie emotive e mentali. Qual è la tua opinione su questo?

Intanto, prendo spunto dalla tua considerazione per evidenziare come le famigerate “mezze mele” siano state spaccate da uno Zeus infuriato. Gli dei erano invidiosi della felicità degli esseri ermafroditi, perché erano esseri perfetti. Né uomo né donna ma perfezione.
Vedi come l’invidia ha fatto danni già dall’antichità? Ma tornando al brano che citi, giustamente hai evidenziato ciò che ho voluto fare emergere: l’invidia. Il tabù, invece, è un divieto utile per far mantenere un determinato comportamento sociale, il più possibile ordinato e senza problemi. Esiste soprattutto nelle religioni. Nella nostra società patriarcale – purtroppo ancora patriarcale! – ci hanno trasmesso l’idea che l’uomo è cacciatore e la donna deve stare a casa ad allevare i figli, ancora oggi ci portiamo addosso questi concetti che non sono altro che pregiudizi impressi proprio dalla mentalità patriarcale, utili solo a un genere, ovviamente. Fin da piccola ho combattuto ogni atteggiamento di disparità e disuguaglianza. Ricordo all’anagrafe, avevo poco più di vent’anni, al rinnovo della carta d’identità, alla voce “professione” l’impiegato voleva scrivere “casalinga”. Mi sono imposta perché non riuscivo a trovare un motivo per il quale agli uomini si scriveva disoccupato e alle donne casalinga. Ho formato una lunga fila di attesa dietro me, ma alla fine l’ho spuntata. Io credo che tutti e tutte debbano fare attenzione anche a questi particolari, che per alcuni possono passare per inutili perdite di tempo, ma sono convinta non lo siano. Tornando al brano che citi, ho descritto una scena in cui le donne esprimono livore nei confronti di un’altra donna che ha lasciato il marito, commentano che “sicuramente” lei ha un amante, escludendo, non riconoscendolo, il coraggio che invece la donna ha avuto, quello di affrontare una situazione complicata e tutti i problemi che ne conseguono. È un modo di sminuire un comportamento che in realtà ammirano e che avrebbero voluto avere loro. E questa è una grande gabbia emotiva, sono d’accordo.

“Siamo veramente esseri liberi oppure, avvertendo una forte dipendenza dagli altri, plasmiamo il nostro comportamento secondo le loro attese? E, se così fosse, come potrebbe una persona considerarsi libera quando le sue aspirazioni, le sue inclinazioni, il suo istinto si lasciano soffocare dalla volontà altrui? Secondo me no, non siamo esseri liberi, e l’essere non-libero è tale o per la propria debolezza o per l’altrui prepotenza. Non si sfugge”.

Ho recentemente visto al cinema Corsage della regista austriaca Marie Kreutzer e il film a mio parere racconta anche un passaggio da un vivere secondo le aspettative altrui al conquistarsi uno spazio tutto per sé, al di là degli sguardi degli altri. Una trasformazione che probabilmente appartiene a molti di noi e che segna un cambiamento profondo. Questa trasformazione fa parte della tua esperienza?

Mi dispiace non aver visto Corsage, visto che racconta un passaggio che io stessa ho inserito nel mio romanzo. Rebecca, nel momento in cui si rende conto di essere stata troppo accondiscendente, e di aver contribuito quindi a farsi rinchiudere nella gabbia dorata del matrimonio, tenta di capire il motivo che l’ha spinta ad accettare la reclusione e, quando finalmente lo comprende, diventa furiosa.
I motivi sono sempre gli stessi e in un modo o nell’altro ognuna di noi li ha purtroppo provati: paura dell’abbandono, paura della solitudine, paura di non farcela da sole. Rebecca, non lo nascondo, ha anche un po’ di me. Sono divorziata e quindi ho alle spalle il fallimento di un matrimonio. Quando prendiamo la decisione di troncare una relazione, noi donne non abbiamo bisogno di avere un amante, decidiamo e basta, ed è difficile che torniamo indietro. Il coraggio per separarsi si trova, arriva non so come. Ma è solo dopo la decisione che inizia il processo di cambiamento, quello vero. Perché durante la relazione non abbiamo avuto la possibilità di crescere e realizzare le nostre aspirazioni o ambizioni, ma solo di comportarci come il marito o il fidanzato o il padre volevano che facessimo.

 “Io ero terrorizzata dai sentimenti, avevo paura di soffrire, avevo paura di morire di dolore per amore. Cosa di meglio poteva esserci di un matrimonio così così? Sì, insomma, potevo approdare a un matrimonio piatto, è vero, ma senza passare per la via crucis delle delusioni d’amore, delle esperienze, come dicono, che ti temprano, che ti fanno crescere. Appunto. Il mio legame con Leopoldo sarebbe stato la soluzione alla mia paura di impelagarmi in storie che tormentano il cuore.

Non la passione, infatti, aveva guidato il mio cuore. Merda!”.

Questo è l’ultimo passo che ti chiedo di commentare.

Rebecca ha fretta di scappare dalla casa dei suoi genitori ma può farlo solo con la fede al dito, per la mentalità infusale dai genitori o perché lei si adagia su una prassi troppo complicata da sovvertire. In più, per questa fretta, neanche ha vissuto altre esperienze ma si è presa, come si suol dire, il primo arrivato pur di uscire dal guscio familiare. Crede di poter recuperare un po’ di serenità in un’altra famiglia, quella messa su da lei, e invece il matrimonio la porterà da una situazione poco serena all’apatia di una convivenza inconsistente, ma è proprio dall’apatia che nascono le domande che la portano a dialogare con sé stessa.

Come mai hai proposto al lettore, come una sorta di storia a bivi, due finali?

Vuoi sapere la verità? Non lo so. Un giorno mi è balenata questa idea perché per me i finali sono sempre complicati e dolorosi. Pensa che se un libro mi piace molto non riesco a terminarlo: le ultime trenta pagine le centellino, se non addirittura rimangono intatte. La stessa cosa mi accade con la scrittura. Soffro perché sta finendo una storia che ho vissuto con i miei personaggi. Tutto riprende forma sintetica, immaginaria, mentre quando si scrive, per una strana alchimia, sembra di vivere una storia vera con personaggi veri. Inoltre credo che mi abbia spinto anche la curiosità di sapere come reagirà il pubblico e quale finale preferisca. E se preferisce… ci siamo capite!

No Comments

Post A Comment