“Alla ricerca di Iris” di Genni Gunn. Dialogo con la scrittrice

 

a cura di Ivana Margarese

 


A inizio mese Dacia Maraini ha presentato a in una libreria romana Alla ricerca di Iris di Genni Gunn (traduzione di Margherita Piva; edizioni Les Flaneurs 2022). Ne sono rimasta incuriosita. I temi discussi erano tutti assai interessanti: un viaggio nella memoria e nel femminile, che avverto come urgente e attuale. La storia di un posizionamento attraverso trasformazioni e cesure, che nascondono, ben coperta al fondo, come nel vaso di Pandora, la speranza.

Qua il dialogo con l’autrice, intermezzato da qualche citazione tratta dal libro.

Alla ricerca di Iris ha un titolo e una copertina che fa un po’ pensare a quei riti di iniziazione e di passaggio che spesso le favole raccontano. C‘è qualche elemento favolistico nella tua scrittura?

In generale, non credo che ci sia un elemento favolistico nella mia scrittura, anche se, ovviamente, le fiabe sono archetipiche, quindi si prestano molto bene a determinati argomenti. In Alla ricerca di Iris, che tratta dell’abbandono materno, ho cercato di illustrare come le fiabe archetipiche che ci vengono raccontate da bambini riflettano schemi di pensiero adulti, idee inconsce collettive. Troppe fiabe presentano madri morte o scomparse e padri che trovano nuovi partner e bandiscono le loro figlie. Forse questo tema ricorrente si riflette anche nella vita.

Ricordare. Dimenticare. Rimediare. Perdonare. Sono verbi tutti presenti in questo romanzo, se ne dovessi scegliere uno di quale ci parleresti?

Sceglierei “ricordare”, semplicemente perché la memoria è, a un certo livello, al centro di gran parte del mio lavoro. Senza memoria non sapremmo chi siamo; la memoria ci definisce. Eppure la memoria è spesso ciò che ci trattiene, ciò che diventa un peso portato attraverso la vita. E la memoria non è necessariamente esatta. Dobbiamo solo chiedere ai nostri familiari di raccontare di nuovo la stessa storia, per ascoltare le prospettive alterate. Inoltre, la memoria è fluida, in quanto ogni volta che esaminiamo un ricordo, lo solleviamo dal disco rigido del nostro cervello, quindi quando lo rimettiamo a posto, è un nuovo ricordo. Pertanto, tutto ciò che aggiungiamo o sottraiamo da esso diventa parte di esso. La memoria rende tutto soggettivamente e ci rende tutti in qualche modo inaffidabili come narratori.

“Quando era piccola, Kate credeva che tutti quelli che morivano andassero a vivere in un palazzo gigantesco che si chiamava lEterno Regno dei Cieli. In chiesa la domenica, ascoltando la voce monotona del pastore, si immaginava re e regine e principesse in vaporosi abiti rosa. Non riusciva mai a concentrarsi abbastanza a lungo da farsi unimmagine di eterno”, ma sembrava una parola adatta al Paradiso che comunque era in aria e invisibile.
Prima visualizzava solo un luogo popolato solamente da animali, perché la loro era lunica morte che conosceva. Non capiva ancora che cosa fossero gli spiriti”, non capiva il concetto, e quando le morì il gatto e suo padre disse che era andato in Cielo, si immaginò il gatto, sedere, gambe e tutto, che si lisciava lassù con miliardi di altri animali. Si chiedeva come predatori e prede, vivendo fianco a fianco, riuscissero a non azzuffarsi e uccidersi.
Quando morì il vecchio direttore delle Poste, Kate aggiunse gli umani al Cielo. Al servizio funebre teneva stretta la mano di suo padre per paura che la cassa si aprisse e il direttore delle Poste se ne volasse via, proprio davanti a lei, per rispondere alla chiamata di Dio”.

Ho trovato questa pagina del tuo libro molto bella: fa ritornare alla mente lo sguardo che avevamo da bambini, il fatto che per noi le cose fossero esattamente come ce le raccontavano, prendevano corpo realmente e talvolta incarnavano paure profonde. La religione soprattutto è piena di credenze che i bambini prendono alla lettera e che anche da adulti, seppure non ci crediamo più, restano traccia di quell’irrazionale che in un modo o nell’altro conserviamo tutti nel nostro baule di esperienze.

Sì, i bambini prendono tutto alla lettera, credono così pienamente che è un peccato che debbano imparare che non ci si può fidare delle parole, che la comunicazione è piena di eufemismi, che non sempre diciamo cosa intendiamo. Mi vengono in mente le Storie di Struwwelpeter, quei libri violenti per bambini, in cui ai bambini che si succhiavano i pollici venivano mozzate le dita, o ai bambini che giocavano con i fiammiferi venivano bruciati in un mucchio di cenere, ecc. Credere pienamente in quelle storie deve aver generato terribili paure in quei bambini, che probabilmente si sono portati fino all’età adulta.

“A che cosa è servita una laurea specialistica in Antropologia, sette anni di università a studiare gli esseri umani dal punto di vista biologico, sociale e umanistico, quando fa fatica a capire le persone intorno a lei?” È una domanda che tutti ci siamo fatti una volta o più nella vita. La storia che racconti in questo romanzo ha pero una trama singolare e colma di vita, seppure sofferta. Da dove nasce questa storia? Quanti anni hai lavorato al romanzo?

 

La storia nasce dal mio desiderio di esaminare gli effetti dell’abbandono, così come l’affascinante idea che senza adattamento la razza umana si estinguerebbe. Le mie storie tendono a nascere da una serendipità: quando una serie di incidenti disparati si uniscono per formare un’idea. In questo romanzo, tre episodi si sono uniti per formare la premessa:
Diversi anni fa, sono andata a Mesa Verde, in Colorado, per vedere le abitazioni rupestri degli Anasazi. Vicino alla cima della mesa alta 9000 piedi, e intorno ad essa, ci sono sofisticate abitazioni in cui vivevano da 20 a 500 persone — piccole città. Quello che mi ha affascinato di più degli Anasazi e la loro apparente scomparsa, è che nel giro di 100 anni hanno cessato di esistere. Le teorie abbondano, ma non c’è una risposta definitiva alla domanda sulla loro scomparsa.
Il secondo episodio che si è verificato è che mi sono imbattuta in un articolo di una rivista sui bambini adottati che da adulti vanno alla ricerca delle loro madri che li hanno abbandonati. La cosa più sorprendente è stato il fatto che questi uomini e donne attraversano la vita con un grande buco nel loro cuore ed un desiderio costante di scoprire perché sono stati scartati. Ho iniziato a fare ricerche su questo argomento e ho scoperto che i bambini abbandonati hanno due tipici meccanismi di adattamento: diventano così buoni che nessuno li abbandonerà mai più; o diventano così cattivi che nessuno li amerà mai, quindi non devono mai preoccuparsi di essere abbandonati. Spesso passano dall’uno all’altro.
Improvvisamente, ho visto una connessione tra i popoli che stanno scomparendo e le madri che stanno scomparendo. Sono tornata a fare ricerche sugli Anasazi. Quali erano i loro meccanismi di adattamento? Dagli Anasazi ho continuato a ricercare culture che si erano estinte e che erano riuscite a sopravvivere a privazioni estreme, grazie alla loro capacità di adattamento.
Poi accadde la cosa perfetta, il terzo episodio: sulla costa dell’Oregon, una violenta tempesta portò alla luce una foresta sepolta nella sabbia per 700 anni. Questo mi ha fatto pensare alla sepoltura dei ricordi, della memoria, e a come attraverso le circostanze possono emergere.
Ho fatto ricerche per circa tre anni, esaminando vari tipi di abbandono materno, sia esso culturale, economico, politico, psicologico, e ho iniziato a creare una storia da ciò che ho scoperto.

La protagonista del romanzo ha un’amica: Angie.

“È Angie, da sempre la migliore amica di Kate, nonostante gli oltre trecento chilometri che le separano, o forse proprio per questo”. Kate e Angie sono assai diverse e lontane anche per età. Il loro affetto non si basa su una affinità elettiva, ma sulla memoria di cose condivise. Mi piacerebbe una riflessione sulla amicizia.

L’amicizia è una delle relazioni più care della nostra vita. Le vere amicizie, al contrario di quelle con “amici” online, derivano dal riconoscimento di passati condivisi. Non intendo questo letteralmente, piuttosto che ciò che riconosciamo in qualcun altro è una visione del mondo condivisa, spesso come risultato di un’esperienza passata simile. Rimango sempre stupita quando incontro qualcuno per cui provo un’affinità, per poi scoprire che entrambi abbiamo un padre morto giovane, o che siamo stati sposati più volte, o qualcosa nel nostro passato che influisca sul modo in cui percepiamo il mondo. Gli amici sono persone che scegliamo, nutriamo e con cui ci confidiamo. Ci diamo consigli a vicenda – che potrebbero non essere necessariamente buoni – e ci difendiamo a vicenda da tutti gli altri.

Alla ricerca di Iris è anche il racconto di una maternità mancata o meglio di un rapporto madre-figlia assente, una assenza che innesca altre assenze:

“Quello che Kate non ha mai capito è come Iris – qualsiasi madre – abbia potuto sostituire un figlio con un amante con tanta facilità. Gli uomini vanno e vengono, e spesso non sono assolutamente allaltezza della situazione. Kate conosce bene il genere: uomini con cui non ha niente in comune; uomini sposati come Stephen, legati alle mogli e alle famiglie; uomini come Ray, che vivono ben lontano da lei; e vari uomini del tipo Peter Pan che non si possono proprio prendere sul serio”.

Mi fa riflettere sul bisogno profondo che anche di questi tempi si ha di “madri”, in senso ampio, di donne capaci di solcare un terreno che resti traccia per le donne che seguiranno.

Sembra che questo territorio sia un territorio che le donne dovranno sempre difendere e attraversare, non importa quanti progressi abbiamo fatto nella vita delle donne in questi ultimi decenni. Basta guardare agli Stati Uniti e alla loro recente reversione della decisione Roe vs Wade per vedere quanto sia facile erodere i diritti delle donne, anche per il loro stesso corpo. Per fortuna ci sono molte donne che prendono in mano la zappa, per così dire, e continuano il lavoro.

Infine, le chiederei un commento su questa considerazione (che ho trovato assai interessante): “Kate aveva detto alla classe era che, secondo lei, era difficile in questa società riconoscere alle donne un ruolo diverso da quello della bontà personificata e che le donne erano capaci di comportamenti subdoli. Aveva detto ai suoi studenti che costringere le donne a salire su un piedistallo non era meno pericoloso e oppressivo che costringerle alla servitù e al silenzio”.

La donna come santa o puttana esiste da sempre: una versione in bianco e nero di un essere umano tridimensionale. Penso che sia molto difficile colorare all’interno di quelle linee, senza sentirsi totalmente oppressi. La recente questione dell’aborto negli Stati Uniti, ad esempio, sta cercando di demonizzare le donne incinte, che per qualsiasi motivo personale, hanno deciso di non portare a termine una gravidanza. D’altra parte, la società ama mettere le donne su piedistalli, ad esempio star del cinema e reali, e poi si aspettano che agiscano di conseguenza. Naturalmente, nel momento in cui quelle donne deviano dalla loro santità, vengono abbattute e gettate nella fogna. In questi giorni, i social media hanno davvero esacerbato tutta questa versione antitetica delle donne.

Biografia

Genni Gunn, autrice e traduttrice, nasce a Trieste ma vive a Vancouver. Ha pubblicato tredici libri tra romanzi, raccolte di racconti, poesie e saggi, e un libretto d’opera. Ha tradotto tre testi di due rinomati autori italiani: Dacia Maraini e Corrado Calabrò. È stata finalista con: Thrice Upon a Time al Commonwealth Prize; Mating in Captivity al Gerald LampertAward; Devour Me Too al John Glassco Translation Prize; Traveling in the Gait of a Fox al Diego Valeri International Award; Solitaria al GillerPrize; Permanent Tourists al ReLit Award.

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