P come fiori

Dialogo con Maria Tronca

 

a cura di Ginevra Amadio e Ivana Margarese

Immagini tratte dalle opere di Antonio Fester Nuccio

 

Petunia, Pomelia e Peonia sono gemelle: tre «gocce d’acqua identiche, trasparenti e cristalline», ma solo all’apparenza. Hanno infatti inclinazioni e caratteri molto diversi. Durante l’infanzia e l’adolescenza, dopo la morte dei genitori vivono in simbiosi, abituandosi a condividere tutto l’una con le altre e nulla col mondo esterno. Ma, poco prima del loro ventesimo compleanno un evento inatteso scombussola l’equilibrio e l’armonia delle tre ragazze, cambiando il loro presente e dando svolte inaspettate al loro futuro. 

I. M: Comincio col chiederti come nasce la tua passione per la scrittura. Leggendoti non ho potuto fare a meno di notare la tua capacità di destreggiarti tra i particolari, di passare attraverso vari registri: descrittivo, evocativo, ironico e così via. Soprattutto mi è parso di riconoscere un divertimento, un gusto dello scrivere e delle storie.

La passione per la scrittura è stata un’evoluzione naturale della passione per il racconto orale che ho da quando sono bambina. Mi è sempre piaciuto raccontare, ma anche ascoltare le storie degli altri. Da quando ho memoria inventavo storie, soprattutto quando dovevo andare a dormire nel pomeriggio, anche se non avevo sonno. Allora pensavo a mondi e piani della realtà, che allora non sapevo neanche cosa fossero, diversi, sempre e comunque magici, e crescendo ho continuato a farlo. Verso i trent’anni ho sentito la necessità di mettere su carta le storie che nascevano nella mia testa molto naturalmente e che diventavano sempre più complesse, con una trama ben definita. Ho cominciato con i racconti e il romanzo è stata un’altra evoluzione naturale.

I.M: La città dove si svolge inizialmente la storia è la città dove tu stessa vivi. Nel romanzo racconti del teatro che è la Vucciria con i colori, i profumi e i suoni delle tante bancarelle che vendono di tutto, dagli alimentari, all’abbigliamento ai casalinghi. Parli anche di alcuni quartieri palermitani, come la Kalsa, “il quartiere arabo, di cui le tre protagoniste “respiravano la storia, i profumi e la magia, riempiendosi gli occhi di un’antica grandiosità ormai profanata dalla sporcizia, dallo squallore e dall’incuria, ma sempre presente anche sotto quella patina grigiastra e opaca che il tempo, ma soprattutto gli uomini, avevano nascosto”. Quanto c’è di Palermo nel tuo modo di raccontare?

Palermo è una musa, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni, con tutta la sua bellezza millenaria, spesso violata e oltraggiata, ma comunque sfarzosa e struggente, ed è il palcoscenico sul quale agiscono i personaggi dei miei romanzi. La sento profondamente dentro di me e, quando ne descrivo alcuni quartieri, di solito del centro storico, mi affido a lei e lascio che, attraverso i miei occhi, mi parli e che mi racconti. La cosa che mi dispiace di più è che la sento diventare sempre più triste, e rassegnata.

I.M: “Petunia aveva un dono: componeva poesie e canzoncine spesso senza nessun significato, alcune volte molto poetiche, altre abbastanza osé. Inventava anche storie strampalate, sempre al limite tra realtà e fantasia, il tocco erotico non mancava mai, che però non scriveva e che ogni tanto raccontava alle gemelle”. Scrivi così di una delle tre sorelle dando attenzione a un aspetto, talvolta rimosso, della adolescenza femminile, ovvero la curiosità verso l’aspetto erotico e passionale, verso uno spazio non “irregimentato” o già previsto, un mistero che a quell’età esercita fascinazione ed è argomento di confidenze. Che importanza ha avuto l’erotismo nella tua formazione letteraria?

Per dieci anni m sono occupata come co-editor di una collana di letteratura erotica moderna e contemporanea edita da Mondadori ma non credo che questo lavoro abbia mai influito sulla componente erotica dei miei libri che, più o meno, è sempre presente. L’erotismo fa parte della vita, è un istinto primordiale, un appetito naturale degli esseri umani, proprio come la fame e la sete, e non è casuale che lo si associ spesso alla morte, altro mistero connaturato nell’esistenza. Quindi mi viene spontaneo inserirlo nelle mie storie e nelle vite dei miei personaggi, che per me sono vere e proprie persone, se non lo facessi verrebbero fuori figuranti fasulli, senz’anima, senza vita.

Le tre gemelle sono ragazze molto belle è questo suscita “l’invidia, la rabbia e spesso l’ira funesta delle altre signorine” isolandole in un certo qual modo da altre amicizie femminili che non siano i rapporti tra sorelle, anche a causa della severa educazione ricevuta dalla madre, Caterina, che descrivi come una vera e propria generalessa. Questo accenno alla bellezza e alla gelosia tra donne mi ha ricordato la trama delle favole, Biancaneve o Cenerentola per tutte, o alcune storie mitiche in cui la bellezza era spesso causa di rovina o motivo di punizione. Vorrei una tua considerazione al riguardo.

Il “troppo” fa paura: troppo bella, troppo brutta, troppo intelligente, troppo stupido, troppo buono e troppo cattivo. L’avverbio troppo è socialmente disturbante perché connota la diversità, sia in positivo che in negativo. In questo caso si parla di ragazze considerate troppo belle, quindi diverse, che generano sospetto e che potrebbero essere pericolose, quindi devono essere punite. Il castigo comincia proprio dalla diffidenza che conduce al distanziamento, all’emarginazione sociale e alle fine, vuoi o non vuoi, degenera nel giudizio. Il tutto per la paura che ammalino, seducano e rubino i propri uomini. Credo che, sia nelle favole che nel mito, ma anche nella letteratura, sia la gelosia il vero motivo della rovina o della punizione. La paura di perdere il proprio uomo, che si considera una proprietà personale, è un sentimento fortissimo può scatenare comportamenti irrazionali e quasi sempre negativi. Quello che trovo tristemente ironico è che, molto probabilmente, l’uomo in questione non vede l’ora di essere ammaliato, sedotto e rubato.

I. M: Gli amori che racconti sono al di là delle convenzioni. Nascono semplicemente e sembrano avere più bisogno di sguardi che di parole. Sono relazioni festose ma con una costante amarezza. Ho trovato Ivan e Rosario delle figure vicine e fiere nonostante i vizi o le sofferenze.

I personaggi maschili del romanzo sono complessi, spesso tormentati, il loro lato oscuro fa sempre capolino e, in alcuni di loro, finisce per aver il sopravvento. Ma sono anche tutti appassionati e generosi, capaci di buttarsi nelle storie d’amore a capofitto, e senza paracadute. Sono uomini che sanno amare e che non hanno bisogno delle parole per dimostrarlo. Questo vale per Rosario e Ivan, ma anche per Alain, sono cavalieri con tante macchie e altrettante paure, ma comunque cavalieri con un’anima bella, anche se non del tutto pura. Don Salvatore merita un discorso a parte, lui è sui generis, fa parte del gruppo dei “troppo” di cui parlavo poc’anzi: troppo bello, troppo esuberante sessualmente e troppo amorale. Ecco, lui è davvero l’anti-eroe, indifendibile. Pero è anche simpatico, a modo suo.

G.A: Del romanzo rimangono impressi i passaggi olfattivi legati al cibo e alle tradizioni che si perpetuano, come esistesse un filo invisibile tra antichi riti e modernità. Il passo in cui Pomelia cucina pietanze orientali è intriso di corrispondenze sensoriali che legano l’atto di cucinare alla scoperta del corpo, della propria femminilità. Ho l’impressione che nella tua scrittura la cifra alimentare sia strettamente connessa alla descrizione del soggetto-donna. È così?

Cucino da quando avevo 14 anni, me lo ha insegnato mio padre, e adoro farlo. Per me cucinare per gli altri è un atto d’amore e l’aspetto culinario è sempre presente nei miei libri proprio perché è una caratteristica fondamentale della mia personalità. Per questo mi viene del tutto naturale inserirlo nelle mie storie e fare amare la cucina ad almeno uno dei miei personaggi. Il rapporto tra cibo e corpo è molto stretto, addirittura tra cibo ed eros, e considero la gestualità gastronomica particolarmente sensuale, non a caso si dice: accarezzare e massaggiare la carne. Non umana, in questo caso.

G.A: Nell’opera c’è un uso predominante di immagini “liquide” o comunque afferenti al campo semantico dell’acqua, che ricorrono soprattutto nelle scene più erotiche. Si tratta, forse, di un immaginario pre-simbolico, volto a evidenziare il processo di scoperta della propria soggettività femminile?

Adoro l’acqua, in tutte le sue forme, la considero sacra, anche quella del rubinetto. Un po’ meno quella piovana, ma perché quando cade dal cielo vuol dire che c’è una giornataccia, il cielo è grigio, e non solo lui, i colori si spengono e mi intristisco. Però sempre acqua è, e quindi la amo lo stesso. Associo l’acqua alla fluidità della vita e dei suoi accadimenti, la considero un elemento che accoglie tutto, fonte di trasformazione e pulizia energetica. Forse è un retaggio pre-natale o forse in un’altra vita ero una creatura marina.

G.A: L’intero testo è intessuto di reminiscenze letterarie che rimandano alla grande stagione del romanzo memoriale ed elegiaco. Quali solo le tue autrici di riferimento?

A parte la mia grande passione per i poemi epici e la mitologia greca che ispirano sempre, in qualche modo, il mio immaginario, l’autore che ha lasciato una traccia indelebile nella mia formazione e nel mio inconscio (quando l’ho studiato all’università anche abbastanza traumatica) sia stato Marcel Proust con la sua Recherche. Mi ha trasmesso l’amore per i dettagli, la narrazione del particolare e anche un certo modo di scrivere cinematografico. E poi c’è il realismo magico della Allende, di Marquez e di Murakami che trovo molto affini animicamente e che non smettono mai di incantarmi.

 

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