Paesaggio classico e paesaggio barocco in “Tre ore nel Museo del Prado” di Eugenio D’Ors

Paesaggio classico e paesaggio barocco in “Tre ore nel museo del Prado” di Eugenio D’Ors

di Giovanna Di Marco

 

 

È del 1923 la prima edizione di Tre ore nel Museo del Prado di Eugenio D’Ors, autore catalano che scrisse in altre lingue (con quest’opera si cimenta nella scrittura in castigliano, più tardi lo farà con il francese). Sono presenti in nuce i temi che l’autore tratterà successivamente, dando un grande contributo nella lettura del barocco.

La suggestiva opera racconta di una visita in cui l’autore, nelle tre ore di tempo che si è dato, mostra la pinacoteca del museo del Prado di Madrid a un compagno, un ascoltatore ideale. Potrebbe essere ognuno di noi, come quando, da un dipinto un personaggio guarda gli astanti? Pare di no: l’accompagnatore di D’Ors dovrebbe avere queste caratteristiche: “L’amico ideale per la prova è giovane, intelligente, ha un istintivo buon gusto e appena quattro vaghe idee generali in materia d’arte. Conviene, inoltre, che il discepolo non sia vanitoso: raramente il vanitoso comprende, mai con poche parole”.

Di certo, chi si accosta a questa materia dovrebbe essere mediamente dotato di buongusto e di quel bagaglio storico-artistico basilare anche solo per sfogliare distrattamente questo testo. Sulla gioventù e la vanità citati, credo siano quei punti che non ci fanno – chi più ci meno – corrispondere alle caratteristiche di quell’accompagnatore ideale. Ma D’Ors non ce ne vorrà se vorremo accostarci alla sua opera vestendo quei panni a distanza di quasi un secolo, visto che molte cose sono cambiate rispetto all’età ideale con la quale ci si avvicina all’arte; anche la vanità, del resto, in questo nostro tempo, ha certamente acquistato nuove e variegate sfumature. Ognuno di noi, allora, potrebbe essere quel compagno ideale.

Questa passeggiata, questa visita guidata raccontata attraverso una loquela che nessuna guida del settore turistico potrà fornirci, avviene in modo scevro da qualsivoglia idea vacanziera e massificata; avviene in modo sapiente e libero: libero anche dalla relazione diacronica con la storia dell’arte, perché segue di fatto il percorso museografico delle sale, approdando dall’ideale alla realtà fisica del sito; e poi è libero da altri fattori, seppure fondamentali, per l’interpretazione delle opere: la storia dei singoli quadri, la loro committenza, la loro originaria destinazione. Si libera anche dell’iconografia per approdare a una visione quasi ‘purovisibilista’ in modo del tutto originale. Perché la destinazione dello scritto, in questo caso, non è un saggio sull’arte, ma un leggiadro, intrigante espediente letterario, quasi narrativo proprio perché svolto in quel percorso e in quel tempo stabilito: le tre ore.

Qual è allora il nodo principe di tutta l’opera? Andare a intercettare le eterne contrapposizioni tra le “forme che si appoggiano” del classicismo con le “forme che volano” del barocco: “Li chiameremo dunque, di preferenza, «valore spaziale» e «valore espressivo»: il valore spaziale si avvicina al dominio della pure geometria, mentre il valore espressivo al campo della pura significazione”.

Ma, attenzione: classicismo e barocco sono due categorie dello spirito che si susseguono nel tempo, che vanno oltre le coordinate storiche dei suddetti stili. Saranno classiche le forme che esprimono compostezza e razionalità, barocche le forme che esprimono movimento, tensione, capriccio. Il Romanticismo e il primitivismo saranno allora barocchi, sempre contrapposti a un idea del classico che va dalla prospettiva rinascimentale alla compostezza di opere anche di un’epoca che potrebbe definirsi “barocca”. Se Wölfflin parla dunque di teoria della forma (Concetti fondamentali della storia dell’arte, 1915), D’Ors ci racconta invece, in un testo letterario di altissimo profilo, delle categorie dello spirito.

“Devono chiamarsi in arte «classicismo» la tendenza a far prevalere le forme che si posano, e «barocco» il culto delle forme che volano. E che, tra gli artisti antichi, Mantegna ci darà l’esempio delle prime e Rembrandt delle altre, mentre, tra i moderni, ce l’offriranno rispettivamente Paul Cézanne e Monticelli”. Questa è la linea programmatica di tutto lo scritto.

Interessante, seppure ancillare nell’economia dell’intero testo, è la descrizione dei paesaggi da parte di D’Ors; non sempre infatti vi dedica rilievo, con una omissione importante che in seguito esplicherò. Ma il paesaggio classico pare non goda di particolari afflati da parte dell’autore perché, nella sua ricerca di compostezza, sembra quasi sviare e allontanarsi, in modo troppo ordinato, da una veduta vicina al reale: diventa di fatto una sorta di scenografia ideale.

A proposito di Poussin: “C’è qui, nel suo Parnaso, la tentazione degli alberi. C’è il gruppo dei grandi poeti, con Omero, Virgilio, Orazio, e Dante, Petrarca, Ariosto, e ci sono Apollo che accoglie il nuovo poeta, cui cinge le tempie Calliope, la fonte alla quale si abbeverano i poeti. Per qui non siamo nella Scuola di Atene di Raffaello tra colonne e gradinate, siamo nel Parnaso, ci sono gli alberi. Che fare degli alberi?… Che fare? Diventeranno colonne. […] Anche nel Polifemo e Galatea, tramite l’aiuto della mitologia, la vita esce vinta, la natura ordinata. Non c’è forse paesaggio meno romantico del mondo”.

Nei paesaggi di un pittore vicino a Poussin, Claude Lorrain, si riscontra invece “un sottile tremolante romanticismo” ne L’imbarco a Ostia di Santa Paola Romana e ne L’Arcangelo Raffaele e Tobia: “c’è forse in essi un preannuncio lontano di Chateaubriand, e subito, geneticamente, si può ricostruire (con la linea Claude Lorraine – Constable – Turner –  gli impressionisti) quanto rapidamente si ripercorra il piano inclinato che porta verso il naturalismo ogni pittura di puro paesaggio”.

Soprattutto ne L’imbarco a Ostia parla di paesaggio spirituale dove: “gli elementi naturali sono scomparsi quasi completamente. Appena alcuni alberi, finemente stilizzati, spuntano tra il palazzo e il castello, fronteggiati dal grande tempio e della serie di edifici civili che lo continuano. L’acqua, quasi addormentata, vi appare popolata dalla moltitudine delle barche e delle navi, e persino la luce, rassegnata ad avere un valore secondario nella tela, è un’indecisa e pallida luce d’alba”. E aggiunge che Charles Baudelaire avrebbe gradito questo paesaggio, dove tutto è “lusso, calma e voluttà”.

Sempre nella stessa stanza, invita il compagno ideale a osservare i dipinti di Antoine Watteau, Il contratto di nozze e la Festa in un parco: “questo pittore dal palpitante inconscio, questo distruttore di linee e contorni a beneficio dell’aria e della luce […] Qui, in Watteau, gli alberi che in Poussin erano colonne sono ormai molto vicini a essere fantasmi”.

Come ho prima anticipato, D’Ors non si intrattiene sul paesaggio che campeggia –  grazie al pretesto dell’apertura della finestra – ne La morte della Vergine di Andrea Mantegna, ma probabilmente vi avrebbe letto un corrispettivo di ordine e sobrietà in un quadro che definisce il meglio composto “nel florilegio della pittura universale”.

Si approda a Velázquez. Il pittore spagnolo è interpretato come il termine medio realista tra l’estremo classico (Poussin, Mantegna, Raffaello) e l’estremo romantico (El Greco e Goya); a proposito del paesaggio in questo artista, definito “riservato” per inclinazione caratteriale, lascia sottendere che il suo andare oltre il realismo coincida con la lettura che ne dà dei suoi paesaggi: “Un’indiscrezione del caso ci ha conservato come opere a sé stanti ciò che sicuramente era solo studio preparatorio: alcuni puri paesaggi. […] Il giardino segreto di Velázquez è, quasi tutto, nel Giardino di Villa Medici.

E, per concludere, tra i primitivi fiamminghi, cita l’opera del pittore Joachim Patinir come legata alla natura attraverso il paesaggio: “Ecco i paesaggi di Patinir, nei quali insignificanti figure evangeliche non vanno oltre il pretesto. Per la prima volta nella storia dell’arte, le grandi masse di vegetazione, i pallidi cieli, le lontananze incominciano a suggerire segreti ineffabili, dolci e pieni di mistero. […] Se nello humour vi è sempre un germe di romanticismo, nel paesaggio ne troviamo ancora di più”.

L’opposizione di stili che si ripetono ciclicamente, che verrà criticata Hauser nella sua Storia sociale dell’arte (dove verrà attaccata la visione formalista in virtù della dialettica marxista), in questo scritto è un’angolazione, una piacevole divagazione attraverso la quale, noi lettori finiamo per identificarci, nonostante le differenze, con l’ideale accompagnatore di D’Ors. Come lui non interagiamo, non parliamo: leggiamo, come lui ascolta il suo cicerone.

Il tema del paesaggio che abbiamo analizzato, quantunque presenti un aspetto ausiliare rispetto alle altre poderose digressioni, sebbene sia focalizzato a intermittenza in questa narrazione singolare e commista, è però importante spia per chiarire i due assunti antitetici, le due categorie dello spirito: il classico e il barocco. E anche le loro forme mediane, quando la razionalità perde timidamente il controllo e diventa, attraverso vaghe sfumature, suggestione e ombra, inquietudine.

 

 

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