Dialoghi nel buio

DIALOGHI NEL BUIO

Racconto inedito di Claudia Fofi
Immagine in evidenza di Stefania Onidi

 

Le consigliano questo psicologo. Dice: è bravissimo! La definizione di “psicologo” racchiude una marea di mestieri stravaganti, ma lei non vuole arrivare prevenuta. Arriva e basta. Le dicono: è eccezionale, ma ti devo avvisare, è non vedente. Va bene, ci mancherebbe, anzi il fatto che non veda la attira, la rilassa. Lui l’accoglie a mano tesa, lei gliela stringe tiepida. Lui non porta occhiali. Le dice, attenda qua. Il salotto stile mi affogo se ci resto un minuto di più è arredato con mobili degli anni ’90 in svendita, sui toni del marron. Come la casa di una suocera triste. O di un avvocato permaloso. Divano di pelle a L con morbide rouches, spire che si avviluppano intorno alla sua nuca provata dalle infiammazioni, appena accenna a rilassarcisi sopra. Grossi libroni di spionaggio in pile ordinate. Grossi libroni di Freud minacciano il tavolino. Vecchie videocassette numerate. Luce accecante, pavimento di marmo striato lucidissimo, lungo tavolo per cene con l’analista a capotavola. Si odono parole al telefono. Poi lui dice entri pure. Si sdrai lì. Lì è una chaise longue nera. Vicino ce n’è un’altra. Lui è seduto su un divanetto dalla parte opposta della piccola stanza. Appena lei si allunga lui spegne la luce. E’ un buio pesto, nerissimo, incredibile per una stanza in piena mattinata di sole. Lui dice non si preoccupi, favorisce il rilassamento. Si sente tesissima. Allora mi dica, qual è il problema? La voce suadente contiene una forma di asprezza che il buio aiuta a intercettare. Per lei è facile, lavora con le voci, è un’insegnante di canto. Lì per lì fatica a ritrovare qualcosa di importante che possa averla spinta a trovarsi lì sdraiata. Non vede la punta dei suoi piedi, non vede le mani incrociate sopra la pancia. E’ strano. Sa benissimo che è lì perché sta soffrendo. Suo marito vuole separarsi, da un giorno all’altro se n’è andato lasciandola con la figlia di nove anni. Ma il buio non facilita la concentrazione. Avviluppa, ricrea, scioglie e fa evaporare. Mentre lui parla di madri castranti padri assenti e orgasmi multipli la sua mente comincia a vagare. Fa libere associazioni.

Un mese prima ero a Milano. Simona mi propone di andare a visitare l’Istituto dei ciechi, che allestisce un percorso chiamato Dialogo nel buio. Per capire com’è la vita di un non vedente. Con quali “occhi” vede. In pratica dopo le fasi preliminari, pagamento, posizionamento borse nell’armadietto, che si svolgono in un mondo ancora illuminato, veniamo introdotte in un’esperienza che si svolge in un mondo totalmente nero. Non ero mai stata a contatto con una simile oscurità. Plasmata di netto, da fuori a dentro, artificiale eppure vera, accogliente come una favola che un po’ fa paura e un po’ rassicura. La sensazione iniziale è oddio aiuto. Un nodo alla gola. Non vedo, non esisto. La nostra guida è non vedente e si chiama Antonella. Ha una voce dolce, ma sento che vibrano delle ansie dentro. Capisco poi, parlando con lei, che oltre al problema della vista si sta aggiungendo un problema all’orecchio che le impedisce di intonare bene (le piace cantare, sta prendendo delle lezioni). Antonella ci guida lungo l’itinerario del quotidiano di un cieco, quella che è la nostra normalità, ma tutta al buio. Andiamo in barca con il vento in faccia, ci troviamo in un incrocio di città, attraversiamo la strada con le macchine che sembrano sfrecciare da qui a non si sa dove, tocchiamo cespugli, pareti di legno, bancarelle con la frutta. E’ tutto così intenso, i profumi, la sensazione di calore o il fresco, l’idea di dover indovinare se si è all’interno o all’esterno. Antonella scherza molto, si diverte a prenderci in giro, ci fa degli indovinelli. Attenta! Passa una macchina! L’istinto di conservazione mi fa fare un salto verso il marciapiede mentre l’audio riproduce lo sfrecciare di un’auto in corsa, i clacson, l’aria spostata nell’attrito. Non sapevo di sapermi muovere bene nel buio. E’ Antonella a farmelo notare. Lei sa sempre cosa accade, dove sono io e dov’è Simona. Mi fermo sul ponticello di legno che conduce a un’imbarcazione. Dondola un po’. Antonella mi racconta la sua vita, rapida, come un disegno infantile fatto di pochi tratti essenziali. Non vedere, ma vedere in un altro modo. Far parte di un mondo nero dove trovare comunque senso e bellezza.

La mia vera ansia viene dalla paura di perdere anche l’udito, perché non potrò più capire se canto bene oppure no. Il mondo delle voci è il luogo da cui ricevo nutrimento. Il mondo della pelle. Quello degli odori. Non vedere gli uomini non mi crea imbarazzo. Essere bella o brutta non mi importa. Ho vaghi ricordi dei colori, perché ho perso la vista da bambina. L’azzurro appartiene a una sensazione di leggero e triste. Il marrone è tiepido come questo muro. Il bianco è come un corridoio con in fondo una finestra. Il verde non lo capisco. So sempre dove devo andare, e non sono mai sola. So sempre da che parte girarmi per non cadere. Gli altri vibrano vicino a me, ma non se ne rendono conto. La gente è tanto ansiosa e va troppo di corsa. Gli alberi forse ci sono, forse no. Sono solo forme, sagome di un’idea, l’idea dell’albero preso nelle sue funzioni: fotosintesi, nidi, rami, Natale, foglie secche che scricchiolano sotto gli stivali in autunno. L’odore dell’albero che cambia quando vado a camminare in montagna. Alberi con caratteri diversi, cortecce più umide di altre, altezze ripide che per me non significano nulla. Persone che incrocio e che pensano di vedere. Pensano che siccome hanno gli occhi per vedere, allora vedono. Io le annuso come un animale, le persone. Entro in un museo dove mi descrivono i quadri. Immagino i quadri a modo mio, posso sentire la loro bellezza da ciò che sprigiona dalle persone che guardano per davvero un’opera d’arte e si commuovono. La loro estasi di fronte a un quadro meraviglioso, davanti a un paesaggio, io la percepisco, entra in me con la forza di un temporale estivo. Dio deve avere fatto di noi uomini una perfezione talmente imperfetta da essere capaci di accogliere il bello in ogni dove. Persino in questo nero dove pare che non c’è niente. Ma cos’è il niente. Niente è dopo che sarò morta. Ora ci sono suoni, odori, la corruzione di questo buio dove intrometto pensieri, dove gli altri gestiscono la realtà, dove mi ritaglio piccoli spazi di autonomia. Non l’autonomia di vestirmi o di camminare con un bastone per ciechi. Quello è facile. L’autonomia di essere chi mi pare e di vedere nel buio un mondo diverso dal tuo. Un altro mondo proprio, che per te non esiste e che per me è comunque bellissimo. Come i pazzi, vedi, siamo come i pazzi.

Sono sopraffatta da un’emozione molto forte, mentre l’ascolto e sprofondo e mi faccio divorare e nutrire dal buio. Non apparire a se stessi e stare in un mondo dove non esiste l’immagine possiede un fondamento di piacere. Nessuno può vedermi, non posso vedere nessuno. Sono me stessa, ma in un altro modo. Non posso godere della luce riflessa, dell’origine di ciò che ha spinto l’uomo a rappresentarsi, la bellezza di ciò che esiste per i nostri occhi. Devo ricostruire per me, per Antonella, per questi pochi minuti che mi separano dal rientro nella mia esistenza illuminata un ideale diverso cui aggrapparmi. Godere di quello che non vedo ma intuisco: la gentilezza non ha bisogno di occhi, la bontà traspare dalla voce, il rispetto si respira nei movimenti del corpo, nell’andare verso l’altro e nel riceverlo.

Verso la fine del percorso ci troviamo in quello che intuiamo essere un piano bar, anche qui completamente buio. Ci sediamo e ordiniamo al cameriere, che ci porta le birre mettendocele direttamente nelle mani. Il cameriere è rapido, come se vedesse, come se mi vedesse mentre mi tocca le mani. Le mani sanno che le birre sono arrivate. La birra trova la strada verso la bocca. C’è un pianoforte che suona e comincio a distinguere almeno cinque voci diverse, di cui due femminili. Il pianista suona classici italiani. Altri cantano. Dico a Simona, dai, andiamo verso il pianoforte. Non è facile trovare gli scalini, il piano sta su un palco rialzato credo. Posso suonare? Chiedo al gruppo di non vedenti. Oppure qualcuno di loro ci vede ma è immerso nel buio come me? Non fa alcuna differenza ormai. L’effetto notte rimbalza dal trovarsi nel pieno della scena all’osservarla dal fuori. I due piani non cambiano, è comunque buio. Certo! Mi dicono loro, entusiasti. Suono qualcosa, ci mettiamo a cantare. Il piccolo gruppo si stringe intorno al piano, sento il calore, le aspettative, la curiosità. Le mani vanno sulla tastiera sicure del fatto loro e trovano le note. Le mie canzoni tristi. Sento che il mio viso si è abbandonato di lato, è un viso ignorato e beato, un viso in pace. Smetto quasi subito e mi alzo in piedi. Mi trovo tra le braccia di un tipo alto e muscoloso, il quale mi dice perché sei triste? Sono a casa. Il petto di quest’uomo è la mia casa. E’ un corpo con dentro un’anima una mente delle paure delle aspirazioni dei sogni. Non ne vedo il viso, e il viso è portatore di un’immagine che fatico in questo momento ad associare ai contenuti di questo corpo, del corpo di questa persona. La sua bellezza e la magica precisione della sua accoglienza e del suo accorgersi di me escono fuori da altri canali, da un’emanazione profonda, umana nel vero senso della parola, non sopraffatta dal giudizio estetico. Ha una voce nitida e profonda, molto simpatica. Mi appoggio sul suo petto e mi rilasso. Gli accenno le mie disavventure amorose. Mio marito mi tradisce. Mi sento che ho paura di perderlo, forse l’ho già perso. Lui solleva il mio viso e si avvicina per tentare di baciarmi, così, come se fosse il naturale finale della storia. Io giro il volto dall’altra parte, ma senza fastidio, con dolcezza. Lui senza scoraggiarsi mi fa un massaggio sulle spalle. Il tutto succede nel buio totale, mentre il resto del gruppo scherza e ride. Mi sento talmente sollevata in quell’istante così breve. Talmente sollevata di non dovere apparire. Felice per l’amore che sento all’improvviso, lì dove faceva più male, felice per la bellezza che respiro. Al di là dell’Apparire Soffocante, il Grande Imperatore che governa le nostre vite. Sono, per un attimo, un essere umano nella sua essenza. Simona mi dice, mentre usciamo, si, certo, ma poi noi abbiamo la fortuna di poter uscire dal buio. Lei è fatta così, spoetizza. Ha ragione, naturalmente. Dopo quello che mi è sembrato un lungo momento fuori dal tempo e dal mondo, torniamo nella luce. Vedo Antonella ora. Il suo viso senza contorno, come spossato da un incessante vento interno. I miei occhi registrano altri particolari che prima mi sembravano irrilevanti. Altezza, bellezza, la forma del naso, la corporatura. Tutto ricomincia a esistere. E’ una forma di ricamo, che gli occhi compiono ininterrottamente.

Apre gli occhi, ma dentro e fuori fa lo stesso sulla sedia dello psicologo che intanto si è palesato come analista-sessuologo fissato col punto G. Suo marito di certo omosessualoide e narciso, lei con rigidità da manuale. Mi ha dato la mano a conchetta. Come a conchetta scusi? Beh, la stretta di mano a squadra indica una freddezza sessuale. Due più due fa quattro insomma. Lui di certo non la scaldava. Lui è centrato su di sé, vuole ancora le coccole della mamma. Nell’oscurità certe cose sembrano sogni, altre incubi, ci sono mezze bugie e mezze verità. Tutto si mescola, tutto è possibile. Madre lesbiforme, padre assente e anaffettivo. Freud gongola sul divanetto. Si, certo, ci rivediamo. Guardi non si preoccupi la sua è una situazione che si risolve, suo marito torna, torna di sicuro. Ha preso una sbandata. Lei faccia così e così e vedrà che torna. Sia dolce, non l’opprima. Si stringono la mano, lei stando attenta a non fare la conchetta e certa di non volerlo più incontrare. Non vuole che le dicano che suo marito torna, anche se vorrebbe sopra ogni altra cosa che tornasse. Vuole sentire cosa è meglio per lei, per stare in piedi e non cadere, anche nel buio. La luce fuori nella strada è violenta, luce di giugno in aperta campagna o quasi.

Biografia 

Claudia Fofi è un’autrice, cantautrice e scrittrice di Gubbio. Dopo la laurea in lingue ha iniziato ad appassionarsi alla scrittura della canzone e al canto. E’ formatrice vocale, perfezionata in musicoterapia, performer e direttrice artistica del Festival Umbria in voce. Con le sue canzoni ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Ciampi, il Grinzane Cavour, il Premio Logic al Mantova Musica Festival, finalista tre volte al festival Musicultura. Nel 2016 ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Odio le ragioniere”, con Secop Edizioni, per la collana Poesia in Azione. Menzione di merito con la silloge inedita “Il delta della lingua” al Premio Gozzano 2018.  Nel 2019 pubblica con Ed. Bertoni una raccolta di post dal titolo “Post-Post”. Nel 2020 sue canzoni contenute nell’album Torrendeadomo di Sara Marini sono arrivate in finale al Premio Tenco. Finalista Premio Carraro 2021. Menzione d’onore Premio Quello che Caino non sa 2021.

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