L’impero che si tace. Poesie di Ilaria Seclì

 

L’impero che si tace. Poesie di Ilaria Seclì

a cura di Giorgio Galli

immagini di Elina Brotherus

 

Nel numero dedicato al paesaggio approfondiamo la figura di Ilaria Seclì, poetessa nel cui lavoro il paesaggio e i paesaggi svolgono un ruolo di primo piano, dal paesaggio boschivo simbolo dell’infanzia incontaminata a quello urbano che, quando non è redento da squarci di nostalgia, fa da sfondo a molti fra i componimenti più amari. Nella poesia di Ilaria Seclì il paesaggio è strettamente intrecciato ai processi di significazione e la dilatazione dell’orizzonte paesaggistico comporta sempre una dilatazione del campo semantico.
Nata in Svizzera, Ilaria Seclì ha compiuto gli studi universitari a Lecce ed è vissuta a lungo a Milano, conservando però un legame affettivo con la Mitteleuropa. Della sua vita dice che è stata piena di slogature. Ha cambiato in effetti molti luoghi, tutti intrecciandoli alla sua poesia e in tutti intrecciando intense amicizie poetiche. La sua vera patria è la poesia. Il reale sembra a volte perdere ogni fascino ai suoi occhi. I suoi versi – che travalicano le dimensioni del verso, abbracciano l’orizzontalità della prosa e ingoiano i più diversi registri della significazione; che dilatano i confini della significazione fino a sfiorare l’abbandono ai significanti di Carmelo Bene- i suoi versi, prima che compresi, vanno ascoltati, perché scritti in una lingua magica, fatta di suoni nuovi e arcaici, di fattura, di filastrocca e di preghiera. L’infanzia che non si lascia ingabbiare nelle leggi dell’età adulta, il “piccolo mondo antico” che si ribella alle dismisure del mondo globale, un bisogno di donarsi che non si sottomette alla legge della domanda e dell’offerta sono fra i suoi temi dominanti.
Per Ilaria bellezza e giustizia sono sempre sorelle, ma nel mondo vede bruttezza e ingiustizia, le entrano fin dentro ai sogni e li macchiano. Allora lei cerca scampo nella lingua magica dell’infanzia e nel silenzio dei boschi. Rifiuta la lingua di un mondo che si è abituato a tutto e dilata a più non posso una lingua dove tutto è meraviglia, tutto è sorpresa e miracolo. Donna bellissima e dalla voce suadente, anarchica e gran giocatrice di briscola, Ilaria desidera la vita ma non la sopporta, e allora la trasforma in poesia: una poesia finissima e selvaggia, che piove e grandina sul lettore, che lacera senza paure il confine fra letteratura e vita; una poesia del mondo sacralizzato, panteista, miracolistica, eppure vissuta coi sensi, col corpo, con tutta la persona, in una travolgente e aggressiva benedizione.

 

Da L’impero che si tace (Ladolfi, 2020)


Lettera

Lo ricordo bene il silenzio del primo bosco, così profondo che vedevo le impronte del pettirosso e la direzione che il vento snodato e mite dava alle formiche.
L’occhio si accorgeva di movimenti impercettibili e suoni precisi o lontani, visioni su una tela nivea.
C’erano attrezzi spaventosi e fissi, forse per la legna.
Qualcuno da queste parti si fa chiamare boscaiolo e abita qui vicino, mi dicevo. Faceva la  paura che il bosco fa nelle pagine delle favole scure, guardare più in là metteva i brividi, trama fitta di tronchi, abbagli improvvisi di luce e voci di creature nuove.
Sapevo di starci dentro, sono nata per questo momento pensavo, quindi non mi voltavo per assicurarmi della tua presenza. Per quanto l’aria si facesse nera andavo, il picchio mi stordiva e incoraggiava fino a quando ho capito che ero sola e ho cominciato a trasformarmi in corteccia insetto muschio foglia tana becco.
Una di quelle cose che il bosco non può temere e fa addormentare lì, ai suoi piedi.

*

Qualcos’altro (Milano, Viale Monte nero, Giardini di Porta Venezia. Neve)

Una forza respinge, svuota le panchine.
È bianco. Grande luna a briciole.
Più di rivoli o fiumi è un mare, sostanza infinita disposta a farsi calpestare.
Nel dominio tiranno orfano di logica sono gli altri a temere, procedono intuendo un ostacolo di cui non vogliono sapere.
Una ragazza lancia una palla di neve al cane.
Si aspetta qualcos’altro che un ritorno d’osso.
Un altro si infila col cane in un lento silenzio, lo aiuta il fumo di tabacco. Aspetta più di un ritorno di pietra.
Cos’è quest’altro sconosciuto che si è fatto mondo come niente fosse il resto, prima. Come ritornare principianti, attoniti, iniziati.
Una sorpresa che lenti passi misurano, sguardi complici e sorrisi.
Numeri di terre lontanissime dove sopravvivono parole importanti, amori capaci di disumano gelo. Una strana confidenza, come toccare mani e nasi a sconosciuti, il barista offre dolci, occhi e sorrisi promettono sventate apocalissi, purché si resti in questo stato. Incodificato meridiano che ci cuce in altro modo alla sfera.
Due rotondità empatiche ricostruiscono le cose, rinominano spazio e tempo, ridefiniscono lo sguardo. Neve.
Ogni cosa pianta passo cappello verso d’animale è incagliata, ogni cosa si impone, stagliata nella verità di uno sguardo trasparente.
Vive di vita propria, non chiede il perché. Tutto è essenziale, minuscola vite di orologio.
I cani abbaiano. Il frate spala neve a piedi scalzi. Mondo piccolissimo sul palmo, paesaggio nell’ampolla a vetro, diorama d’altre vite intatte, dagherrotipo ritornato a respirare.
Bastevole mondo, lo sguardo bianco non abbraccia il resto.

 

*

Inedito

La polvere sull’asse della sedia

nel conservatorio di Sant’Anna.

Sottile immobile tronco di palma

che la porta intravede dal cortile.

Gli sguardi lisci delle cose, senza

crepe, senza distrazioni. Così

la pelle di certi visi boreali

trattiene l’infanzia della neve.

Un silenzio mai stanco transita,

trova eredi, sa dove far riposare

il suo cespo vivo.

 

 

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