La finestra che guarda

La finestra che guarda

racconto inedito di Omar Suboh

 

(in copertina: La finestra di notte di Edward Hopper)

 

 

Mi sono attaccato al muro per ascoltare cosa dicevano i miei vicini. Parlavano, parlavano, parlavano di… pulsazioni. Che cosa avranno mai voluto dire?, ogni parola si confondeva tra gli strati spessi che separavano le nostre stanze, come dei detenuti in un carcere di massima sicurezza. Sentivo che spostavano mobili, cadevano bicchieri, si aprivano finestre, nascevano liti e discussioni infinite. Era l’inizio di qualcosa?, o forse era la fine di tutto? Perché abbiamo sempre così paura di vivere quello che stiamo vivendo? Mettiamo paletti sull’incedere dell’esistenza per impedire che ci sovrasti con tutta la sua maestosità. Allora mi sono avvicinato, ho disteso la mia gamba sinistra all’indietro e, con l’orecchio destro, dopo essermi vestito, ho deciso che sarei uscito dalla mia bolla, perché volevo entrare in quella di qualcun altro. Anche se, come quasi sempre accade, le nostre bolle sono inscalfibili in ogni caso, e finiamo sempre per ritornarci, come un naufrago che sogna di fare ritorno alla sua casa appena abbandonata. – Il mio cuore segue le pulsazioni!, segue i battiti! -, disse quella persona dall’altra parte, ma che cosa avrà voluto dire? Non mi soffermo troppo e continuo ad origliare, sono un vojeur di me stesso: sbircio dalla serratura del mio ombelico per risalire la corrente e guardarmi dentro, lassù fino alla vetta del mio cervello, e giù dove il mio sesso riposa nel suo sonno accidentale. – Ogni pulsazione segue un ritmo, così noi due siamo stati travolti dalla frana, in una spirale di progressioni e ricadute: il nostro cuore è il direttore d’orchestra occulto che dirige tutti i musicisti del nostro corpo, gli organi, nel senso letterale del termine -, disse, quell’altro individuo, sempre al di là della mia stanza, oscura e immersa nel suo tedio quotidiano. Quel flusso di scambi, punti di vista, era il confronto tra due anime perse, segnate dalla follia del genio, forse. Quando un artista dipinge non decide di farlo, accade. Quando due persone si incontrano, si conoscono, parlano, si frequentano, decidono di proseguire una qualche forma di conoscenza, quell’avvenimento non capita, accade. È una differenza importante, non tutti ci prestano la giusta attenzione. Dopo aver trascorso un anno dentro la mia camera, i confini tra me e il mondo si sono assottigliati, infatti non esiste più un dentro ed un fuori, esiste un fuori che è il dentro, e viceversa. Il mio mondo interiore coincide con il mondo fuori nella sua totalità. Se mi affaccio alla finestra, in realtà è la finestra che si affaccia su di me, non il contrario. Ogni volta che metto il naso tra i fiori di un vaso di porcellana che mia madre mi portava vicino al letto, sono quei profumi che si insinuano dentro di me, non sono io che annuso loro, ma il contrario. Quando sogniamo, convinti di vivere nel regno del sogno, è il sogno che vive dentro di noi, spalancandoci distese di moltitudini, luoghi che non abbiamo mai visitato che vengono a visitarci, schiudendo agli occhi della nostra mente le dune della coscienza sepolta, splendente. Ci guardiamo dentro e la nostra anima ci sta fissando, ci osserva, scrutandoci come un giudice silenzioso in attesa di emettere la sua sentenza. Le torri crollano, gli edifici vengono sostituiti da altri con nuovi codici strutturali, il tempo si confonde mescolando le sue dimensioni in un tutto istantaneo: passato – presente – futuro, sono forme proprie che trascendono sé stesse, moltiplicandosi alle nostre percezioni, in frammenti di vita sempre più indistinguibili. E ora sono qui, davanti a questo muro, e non trovo il coraggio di staccarmici. Vorrei uscire da camera mia e andare a suonare direttamente al campanello della loro porta. Ma non lo faccio, capisci?, non lo faccio! Sono una lavagna vuota dove nessuno ci ha scritto sopra. Sono un sonnambulo che vaga senza meta tra gli angoli della propria stanza. Oriento il mio sguardo al soffitto e quello che vedo è il soffitto che mi guarda, con occhi infuocati, nascosti tra le nervature, spalancati come due fanali nella nebbia. Devo provare a uscire. Uscire dalla mia testa. Perché varcare questa soglia che separa la mia camera dal resto equivale ad uscire da me. Se ad ogni uomo, in un tempo indefinito, accadono tutte le cose del mondo, vorrà dire che anche se non dovessi riuscirci sarà come se avessi vissuto tutte le vite che ho voluto, o che ho sempre immaginato. Leggo male, ci vedo peggio. Non sento più nessuno. Cosa resta della mia mente?, prima che mi chiudessi in casa andavo sempre in un centro culturale vicino a casa mia. Scendevo con passo spedito e sicuro, arrivavo sul posto con entusiasmo e voglia di stare con gli altri, ma in poco tempo mi allontanavo. In fondo, non parlavo con nessuno. Mi portavo i miei libri da casa, quelli per l’università, e mi perdevo fantasticando con la mia mente sui volti degli altri, gli stessi che come me tamburellavano le loro dita sui bordi delle pagine fotocopiate. In quei brevi secondi, confusi tra i giochi di sguardi celati, qualcosa dentro di me si spaccava. Il cuore cambiava il suo ritmo, la speranza di entrare nella vita di un’altra persona non rimaneva più una possibilità tra le tante destinate a infrangersi. Realizzavo di diventare anche io un essere umano tra gli esseri umani: io, che mi ero sentito sempre inadeguato, respinto, fuori luogo ovunque. Non bevevo ancora, all’epoca. Sì, mi capitava di sollazzarmi in giro con qualcuno quando andavo a scuola, ma non era la stessa cosa. Ora era diverso. Riempivo le mie solitudini alternando i videogiochi alle birre, tutte consumate rigorosamente senza nessuno intorno. Le lezioni avevo smesso di seguirle quasi subito, non mi interessava più far parte della comunità umana, d’altronde i rituali non erano scomparsi? Le danze sino al mattino che inebriavano i miei coetanei non facevano per me. Così, alla noia dello stare insieme, scelsi la noia dello stare da solo. Sempre di noia si trattava. Quando mi sono trasferito a vivere da solo in questa stanza, vivevo ancora con i miei genitori. Mi facevano stare bene, mi ricoprivano di attenzioni, mi preparavano da mangiare, mi accompagnavano dove volevo se per raggiungere qualche compagno di scuola mi dovevo inoltrare in posti lontani, o senza luce. Ho avuto la possibilità di essere seguito, ma non è stato abbastanza. Quello che chiedevo alla mia vita era una intesa profonda con il resto che mi circondava. Non era possibile che alla mia età già provassi tutte queste sensazioni da vecchio. Allora iniziai progressivamente a preferire alla compagnia lo stare da soli: mi ero letto tutto Dostoevskij, I demoni e Delitto e castigo, Memorie dal sottosuolo e L’idiota, Umiliati e offesi e Il giocatore, insomma ero un tutt’uno con i suoi monologhi, i discorsi infiniti intorno all’esistenza di Dio, al nichilismo e alla miseria della malattia, o con l’esclusione e il senso di vertiginosa bellezza sprigionata dalla creazione. Trascorrevo le mie notti insonni claudicando tra i libri sparsi sul pavimento. Piroettavo intorno, compiendo un giro perfetto come un compasso, e poi mi ributtavo a letto, e sognavo di ritrovarmi a Pietroburgo… nelle sue notti bianche, le stesse che avevo letto, immedesimandomi nel ruolo di qualcuno, solitario, che girava senza meta e per caso, o provvidenzialmente come credo, e si imbatteva in una donna disperata che attendeva da sola il ritorno della persona amata. Passavamo tutta la notte insieme, e il desiderio si impossessava di me mutando i miei connotati in un’altra persona. Più forte, più convinta delle proprie capacità, che non esauriva mai il proprio afflato erotico e passionale. Poi mi risvegliavo, mi guardavo intorno, e la prima cosa che scorgevo sbarrando i miei occhi cisposi erano i resti dei fazzoletti consumati la notte prima pensando a una velina. Intorno ai sedici anni mi innamorai di una ragazza dai capelli ricci e gli occhi grandi, un sorriso bellissimo… il suo nome era Maura. Ci eravamo conosciuti perché eravamo tra i pochi nella nostra scuola a non vestirci come gli altri, seguivamo una nostra idea, appassionati di musica emulavamo i nostri idoli incapsulando i momenti tra gli ascolti di dischi che ormai non ascolta più nessuno. Credo che fu per colpa dei miei jeans larghissimi e del cappello che indossavo che mi notò. Dopo le presentazioni di rito scoprì tante cose sul suo conto, come il fatto che era appena uscita da una relazione travagliata con una persona più grande (anche se tutte le ragazze che ho conosciuto nella mia breve vita prima della reclusione, mi ripetevano la stessa cosa: possibile che siano uscite tutte da relazioni tormentate?), e anche lei era più grande di me. La seconda cosa che scoprì era che aveva più amici maschi che femmine… mi ingelosì parecchio. Qualcuno, come era inevitabile che fosse, ci provava, e credo che mi abbia anche tradito. Ma l’ho fatto anche io, senza che lo abbia mai scoperto. La terza cosa che scoprì fu che anche in famiglia la situazione era travagliata: i genitori erano dei bigotti mezzi razzisti che la pedinavano ovunque andasse. C’era da impazzire. In qualsiasi posto andassimo c’era il rischio di trovarseli dietro. Un giorno eravamo andati al mare e ci avevano seguito, in macchina. La madre non voleva che mi frequentasse perché diceva che non avevo futuro (e su questo, alla luce dei tempi, come darle torto), il padre era convinto mi drogassi (quando al massimo mi ero fumato giusto qualche canna in compagnia di amici, mai una da solo!). Poi scoprì che avvertiva una tensione lesbica verso una persona che le girava intorno (e che aveva frequentato già prima della storia tormentata con il ragazzo più grande), e quando me la presentò feci finta di niente. Rimasi impassibile perché pensai che tanto non avesse il cazzo, e questa cosa mi faceva stare tranquillo. Non era un vero e proprio tradimento… sarebbe stato più corretto chiamarla sperimentazione. Non scopammo mai. Mai, lo devo ripetere più volte perché la cosa ogni volta che la realizzo mi fa morire dal ridere (anzi, mi fa morire e basta), ci frequentavamo da diverso tempo ma non avevamo mai avuto un rapporto completo. È possibile una cosa del genere?, certo: il sesso manifesta miriadi di variabili non scritte e che nessuno prende in considerazione. Penso alle sensazioni che ci attraversano quando siamo a letto con qualcuno e mentre crediamo, stupidamente, che anche l’altra persona stia pensando la stessa cosa, in realtà, non è mai così. La nostra intimità fu più preziosa di tutte… anche se non scopavamo. Questo l’ho potuto realizzare solo negli anni, all’epoca, come tutti, ero ossessionato soltanto da quello (ficcarlo dentro), ma quando eravamo insieme, nudi nel letto, e ci baciavamo, ci toccavamo, ci esploravamo giocherellando con i buchi del nostro corpo, e poi parlavamo, parlavamo, parlavamo (sognando e disegnando scenari futuri della nostra vita, insieme o separati: ma pur sempre legati)… stavamo compiendo un gesto estremo, sì!, stavamo mandando affanculo il mondo. Lo stesso che ci vuole sempre prestanti e ottimizzati per le performance (lavorative e sessuali). Non tutti siamo fatti della materia, e non tutti abbiamo le stesse esigenze. Modellarci in vista del risultato estremo, della meta da raggiungere a qualsiasi costo non faceva per noi. Il punto è un altro: esserne consapevoli non aiuta a migliorare la qualità della nostra vita. Vorremmo una cosa e ce ne accade un’altra (magari anche più bella, ma non sempre), sogniamo di diventare questo e diventiamo tutt’altro (come me, qui, chiuso in casa…). Da bambino sognavo di diventare un superuomo, non una specie di hikikomori, forse avrei dovuto seguire il consiglio di mia madre: diventare un ingegnere. Certo, come se passare tutta l’infanzia compresa l’adolescenza, a leggere fumetti di Dragon Ball possa aiutare. Avevo un debole per i manga giapponesi, collezionavo ogni numero. Maura, un giorno, mi guardò negli occhi e mi disse: – Scegli: o me o i tuoi fumetti, non potrai contare sempre su di me –, scelsi i fumetti, ovviamente. La verità è che ho sempre rifuggito dall’impegno, in qualsiasi forma si presentasse. Non volevo studiare, non volevo fare sport, non volevo stare dietro alle ragazze difficili (che poi erano quelle che mi piacevano di più, ma appena mi incastravo in qualche rapporto, la gestazione si rivelava subito impossibile: come nel caso con Maura): e quindi mi bocciarono, faticai a capire cosa ne sarebbe stato di me. Smisi di uscire sempre di più, anche se per un tempo breve, fui iscritto in fisica. Figuriamoci, in fisica… volevo fare filosofia, ma i miei me lo impedirono in tutti i modi. Non trascorse molto tempo da quando lasciai dietro di me il mondo, a volte provo a corteggiarlo di nuovo, ma lui si ritrae come una fanciulla dispettosa, e mi allontana da sé. Vorrei non avere i sensi così acuti, la percezione delle cose così acuita, che sento, vedo, e capisco tutto. Spegnere il cervello è l’unica soluzione. Forse non dovevo nascere, ci sta, può essere?, non credo che sia così folle pensare di essere nati per sbaglio. Lo diceva anche Sofocle, o Edipo, no?, non ricordo bene, la mia memoria è compromessa, i ricordi sono come le cellule che non si riformano, incastonate come biglie colorate tra le pareti del mio organismo. Saprò farmene una ragione se non ho trovato il mio ruolo, o dovrò accettare tutto indiscriminatamente senza mai pormi alcuna domanda?, farmi monaco tibetano che attende il verdetto dei tempi sul frontone del tempio di una divinità greca. Sono stanco di continuare a farmi tutte queste domande, mi rimetto ad ascoltare i miei vicini, e così arriverò all’ora della cena, mi svestirò dopo aver mangiato qualcosa che mi portano lasciandola dietro alla porta, e poi mi addormenterò, sognando Pietroburgo e la sua nebbia imperante.

Biografia

Omar Suboh nasce  a Cagliari nel 1990. Laureato in Filosofia e teorie della comunicazione presso l’Università degli studi di Cagliari, ha frequentato il corso di scrittura tenuto da Vanni Santoni  “Cominciare a scrivere… sul serio”, organizzato dal Museo del Cassero di Montevarchi; ha frequentato il corso “Giornalismo culturale”, organizzato dall’associazione Gli Asini e Collettiva, con la presenza di Carlo Mazza Galanti, Giulia Caminito e Vittorio Giacopini; suoi racconti sono apparsi su «Poetarum Silva», «DROGA Magazine», «Nena news Agency»; suoi testi critici sono apparsi per «pangea.news», «Sul Romanzo», «DROGA Magazine», «il manifesto», «il manifesto sardo», «Poetarum Silva», «Diari di Cineclub»; cura il blog Homo non intelligendo fit omnia: https://diemdedalus.wordpress.com; ha pubblicato una fanzine con il nome di diem.dedalus con l’artista Amirah Suboh, dal titolo Leggenda urbana. Fotogrammi di Minerva (Kirby edizioni, 2019); ha lavorato come borsista di ricerca e tutor didattico presso l’Università degli studi di Cagliari per la cattedra di Storia della filosofia moderna.

1 Comment
  • Acquaviva Angela
    Posted at 08:05h, 07 Agosto Rispondi

    Non so perché a fine lettura il mio pensiero è corso a Gregor Samsa.

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