Epidermicità

Epidermicità.

Di alcuni motivi estetici in Giorgio Vallortigara,

 “Pensieri della mosca con la testa storta”

di Susanna Mati

Immagini di Nicola Samorì

 

 

Epidermicità. Tutti gli esseri delle profondità trovano la loro beatitudine nell’assomigliare

per una volta ai pesci volanti e dal giocare sulle creste più alte delle onde;

apprezzano come il meglio nelle cose, – che esse abbiano una superficie:

la loro epidermicità – sit venia verbo.

(F. Nietzsche, La gaia scienza, 256)

Cosa si prova a essere un verme? E come fa il verme a distinguere se stesso dal non-verme, ad esempio dalla terra che lo circonda? Esiste, cioè, qualcosa come una sua coscienza di sé, un contenuto soggettivo irriducibile della sua propria esperienza?
Già diversi decenni fa la filosofia della mente si era chiesta, in un noto articolo di Thomas Nagel, cosa significasse, come fosse, cosa si provasse a essere un pipistrello (What Is It Like to Be a Bat?, 1974), assumendo che l’esperienza cosciente fosse un fenomeno diffuso, legato non solo al possesso di organi sensori e dunque a processi di percezione sensoriale, ma anche al fatto che tutti gli organismi senzienti potrebbero possedere un’esperienza soggettiva. Significherebbe dunque qualcosa di preciso essere quel verme, quel pipistrello; il carattere dell’esperienza sarebbe soggettivo e avere stati mentali coscienti equivarrebbe proprio al fatto che esiste un qualcosa come “essere quell’organismo”, secondo la sua stessa prospettiva. Proprio la soggettività dell’esperienza, irriducibile a un sistema di stati funzionali, renderebbe oltretutto inadeguate – nell’ottica di Nagel – le spiegazioni riduzionistiche, materialiste, fisicaliste. Ogni organismo individuo, dunque, saprebbe cosa significa, com’è, cosa si prova (what is it like) a essere se stesso.
Proprio da una analoga definizione minimale della coscienza, connotata limpidamente come un avere esperienza, prende le mosse il raffinatissimo libro di Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi, 2021). Senza voler neanche sfiorare le visioni mitologiche inter-specifiche del già infinitamente rimpianto Franco Battiato: “to be a kangaroo / to be a spider / metamorphosis is coming” (23 coppie di cromosomi, in Dieci stratagemmi, 2004), si procede comunque nella direzione di un ampliamento del novero dei possessori di coscienza, in cui andrebbero senz’altro inclusi, secondo l’Autore, anche gli insetti o, per l’appunto, i vermi. Partendo dalla convinzione che nei cervelli miniaturizzati potrebbero già mostrarsi le forme basilari della vita mentale, che non necessitano affatto di grandi cervelli (pp. 15 e 19), il libro si presenta come un attento tentativo di comprensione degli altri animali che, senza sconfinare mai in alcuna ideologia, senza alcun proposito di predicazione, con un delicato understatement scientifico, suggerisce però una vicinanza strutturale e dunque, inevitabilmente, una comunità di destino. Piccoli grandi passi in questa direzione sono costituiti dal rivendicare preliminarmente, da parte dell’Autore, una qualche forma di esperienza – seppur incomunicabile e incommensurabile – per i piccoli cervelli e i piccoli sistemi di neuroni, rivendicando loro di conseguenza la coscienza, cioè il fatto di sentire qualcosa. Dunque, sì, il verme (o il pipistrello) possono avere un’esperienza con un contenuto, autopercepirsi, e ad essere un verme o un pipistrello si prova qualcosa – anche se non sapremo mai cosa.
Esula dalle competenze di chi scrive una interlocuzione informata sulle ipotesi scientifiche avanzate lungo la direttiva principale di questo libro, riguardo al meccanismo di copia efferente e così via, che, peraltro, sono già state abbondantemente esposte e spiegate in altre discussioni e interventi sul tema e che pure, allo stato delle ricerche attuali, devono rimanere appunto al livello di ipotesi plausibili; invece, ci muoveremo qui di preferenza su quei margini in cui, del resto, pare risiedere il significato – come l’Autore ci spiega nel cap. 8: “soltanto nei bordi, là dove le cose cambiano” (p. 69), dimora l’informazione, che sta quindi preferibilmente nelle differenze.
Ora, questo significato sembra essere innanzitutto un significato estetico, ancor prima che concettuale. Anzi, un senso estetico. L’incontro tra estetica e neuroscienze non è certo nuovo, tanto che la neuroestetica è una disciplina ben attestata; non è infatti casuale che le origini stesse dell’estetica siano da rintracciare proprio nelle psicologie empiriche di tradizione leibniziano-wolffiana, che a un certo punto arriveranno a coniare, nell’opera di Baumgarten, la parola e la cosa: l’Aesthetica (1750). Qui l’estetica verrà definita come la scienza della conoscenza sensibile, una gnoseologia inferior data dai sensi, l’analogon rationis esito delle strutture percettive. Sebbene considerata una facoltà conoscitiva inferiore rispetto alla logica, la conoscenza sensibile (oscura, limitata, confusa) – dicevano quei filosofi del Settecento – è tuttavia aurorale e sta a fondamento di ogni altra. Poiché la scienza della conoscenza sensibile (scientia cognitionis sensitivae) è infatti intuitiva; e già Leibniz poteva dedurre l’esistenza del mondo e del nostro stesso corpo a partire dall’intuizione dei sensi.

Cosa ci dice, dunque, l’Autore, riguardo all’aisthesis? E, in particolare, all'”esperienza estetica” (il termine dev’essere ovviamente preso nel suo spettro più ampio) di quel verme e delle sue cellule? Per prima cosa si comincia col distinguere, sulla scorta del filosofo settecentesco della “scuola scozzese” Thomas Reid, la percezione (fisica) dalla sensazione (mentale): quest’ultima è cioè il sentimento interno, la coscienza che accompagna la percezione sensoriale accaduta là fuori. Possono tuttavia esistere percezioni anche in assenza di sensazione, cioè in apparente assenza di esperienza, come nell’esempio paradossale della blindsight, la vista cieca (cap. 12). Con coerenza, viene tracciata una linea che, a partire dalla distinzione della doppia provincia percezione/sensazione, giunge fino al postulato dell’esperienza e della coscienza per i piccoli sistemi di neuroni; una linea il cui ineludibile punto di partenza è però situato nell’eccitabilità estetica delle membrane cellulari, e dunque nella definizione di un sé tramite un sentire, a partire dall’attività basilare di “poche, umili e umide cellule” (p. 173) che ne costituiscono il substrato, il subjectum.
Non crediamo di tradire troppo le intenzioni dell’Autore vedendo qui tematizzato l’inizio della coscienza, e perciò della conoscenza stessa, tramite la sensibilità di queste petites perceptions (per parafrasare impropriamente ancora Leibniz), e non tramite i risultati cognitivi derivanti dall’accumulo sempre più complesso di grandi quantità di neuroni. Condividiamo qui l’approccio minimalista adottato dall’Autore, considerando come cruciale il momento dell’eccitabilità ‘estetica’ delle membrane (nell’importante cap. 11), ovvero la capacità che alcune cellule viventi hanno di rispondere agli stimoli in pochi millisecondi, in una sorta di autopercezione aptica che costituisce già l’anticamera della coscienza (che verrà poi completata tramite l’idea di copia efferente).

È dunque l’eccitabilità estetica che inizia a definire il sé, concretizzandosi in una modificazione dell’omeostasi biochimica mediante l’afflusso e il deflusso di ioni, capaci di attraversare quella epidermide cellulare che segna il confine tra sé e altro da sé, tra interno e esterno, tra ‘io’ e diverso. La coscienza di sé potrebbe essere quindi legata alla reattività sul proprio bioconfine, alla consapevolezza di una sensibilità nei confronti del proprio ambiente: “modificare omeostaticamente i propri stati corporei doveva essere importante alle origini delle menti” (p. 96). Sono gli stimoli cellulari legati in primo luogo al movimento attivo, a decidere del sé e del non sé: come illustra l’esempio dell’ascidia che, una volta aderita a un substrato, cessa di rappresentarsi attivamente e per prima cosa digerisce il proprio sistema nervoso (pp. 104-5). La discriminazione tra questi due tipi di stimolazione, prodotto dall’esterno e autoprodotto, torna appunto nel centrale cap. 15, attraverso la descrizione dell’esperimento della mosca con la testa storta, che lascio godere ai lettori, e l’idea di copia efferente, tramite la quale le sensazioni hanno cominciato a sentirsi.
Quello che qui ci interessa maggiormente della ricchissima materia esposta con estrema precisione dall’Autore, è come il momento della nascita del sentire cosciente sia innescato in origine dall’aptico come funzione della pelle (si rimanda, sul tema, alle ricerche estetiche di Giuliana Bruno); ovvero il “riconoscimento che agli albori delle menti la stimolazione sensoriale produceva una reazione corporea localizzata”, che è poi diventata sensazione cosciente (p. 127). Si comprende dunque l’importanza estrema di quella epidermide, o pellicola, o membrana, o confine, o barriera che decide del sé: di tutte quelle superfici attraverso cui si entra in relazione e tramite le quali passano, nel mondo umano, anche la comunicazione e le emozioni (queste non potremmo davvero attribuirle al povero verme). Queste superfici si tramutano poi, estendendosi, in quegli schermi o touch screen con i quali oramai continuamente interagiamo mediante un contatto epidermico, ‘superficiale’ (in senso quanto mai nietzschiano?), e che rappresentano infatti, anche in questo caso, di volta in volta prolungamenti inquietanti del nostro sé e, allo stesso tempo, stimolazioni esterne.
Dunque: epidermicità del sé, apticità della percezione, esteticità della coscienza. Dove altro si sarebbe potuta porre, se non nel sentire, la discriminante per ampliare la coscienza fino alle forme elementari delle altre menti? E come farlo, senza conferire un ruolo centrale all’aisthesis? Quella che viene descritta tramite l’attività senziente delle cellule è appunto un’esperienza estetica basilare, fondamentale – un corpo che offre i primi stimoli per il pensiero: un corpo che (si) pensa. Fin troppo ovvio qui, per il filosofo, riallacciare l’attività di questi corpi-mente primordiali a quell’ “es denkt”, all'”esso pensa” nietzschiano (Al di là del bene e del male, I, 17) e in seguito freudiano. Si ricorderà l’affermazione di Freud, con cui l’Autore mostra di concordare (nelle Lettere dalla fine del mondo, pp. 206-7), secondo cui “l’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo”. Che sia dunque una sensibilità epidermica, ciò da cui in primis scaturisce la coscienza? Che la coscienza sia, in generale, il senso fondamentale del corpo vivente? Una tentazione pensarlo, per il filosofo, dal momento che in fondo “il risvegliato, il sapiente, dice: io sono corpo e solamente corpo, e niente al di fuori di questo; e anima è solo una parola per qualcosa che è nel corpo” (Così parlò Zarathustra, I, “Dei dispregiatori del corpo”). Il corpo è una grande ragione, prosegue Nietzsche, e quella che siamo soliti chiamare ‘ragione’ è invece, al confronto, una piccola ragione; è infatti il corpo con la sua grande ragione non solo a dire io, ma a fare l’io.
A corollario di questo, si noti, nel testo, la discreta insinuazione riguardante la perifericità e la secondarietà del pensiero concettuale; pare infatti che siano proprio le intelligenze ‘minori’, dallo scarso contenuto neuronale, ad avere maggior bisogno di categorizzare, di creare sistemi e introdurre schematismi; una categorizzazione non solo percettiva, ma anche astratta (pp. 59-60), una vera e propria costruzione di concetti (cap. 7), la quale risulta essere quindi una facoltà molto comune e diffusa, nient’affatto prerogativa eletta ed esclusiva del genere umano. Se dunque categorizzare non equivale a pensare, la ragione del corpo non è considerabile né più alta né più bassa, solamente differente; tra le verità del senso e quelle dell’intelletto e le conoscenze che ne derivano – sebbene naturalmente non si possa parlare di indistinzione – non esiste però diversità sostanziale, come sosteneva il citato Baumgarten.
Proprio questa sottolineatura del carattere sensibile di ciò che è possibile oggi chiamare ‘verità’, conferisce all’argomentare affascinante di questo libro nel suo complesso quella qualità misteriosa e persuasiva, ammaliante e inconfutabile, che è l’epidermicità – la sua Hautlichkeit (da Haut, pelle: questo il lemma originale nietzschiano). Lungi dal restare confinata in una zona bassa, questa sensibilità rimanda e richiama anzi il problema tipicamente platonico del “toccare” la verità, del contatto diretto, estetico, con essa; cui per l’appunto l’Autore fa cenno in alcuni luoghi, in cui si scopre di più, contenuti nelle Lettere dalla fine del mondo (ad es. pp. 80-82), là dove parla di una eventuale, subitanea uscita dall’usuale labirinto conoscitivo: “se riesco a raggiungere una comprensione accurata della struttura del labirinto potrò balzarne fuori e sperimentare, individualmente, un qualche genere di contatto diretto con la verità”. Se la base di tutto il conoscere è estetica, lo è anche la sua forse irraggiungibile meta.
Là dove l’universale astratto sfugge (come accade propriamente nel giudizio estetico, inteso in senso kantiano), ci si volge al particolare concreto. Ad esempio a questo libro, che appare peraltro come ultima gemma nella preziosissima collana di perle adelphiana Animalia. In effetti, se mai un oggetto-libro ha, per così dire, reificato perfettamente la sua intentio, questo in particolare vi riesce illustrando, fin dalla raffinata veste estetica e dalla perfezione dell’immagine di copertina, l’idea della tattilità: lo zampettio di una mosca sulla spalla nuda di una donna, ovvero un’allegoria settecentesca del tatto. Del tatto, naturalmente, nelle molteplici accezioni del termine: dalla delicatezza con cui vanno toccati certi tasti, alla finezza e accuratezza possibili nell’esercitare uno dei sensi più comuni, appunto al ‘toccare’ – nel senso estremo di attingere – una qualche verità. E ci sembra che l’Autore sia stato capace di tenere insieme con grande sapienza e dissimulazione tutti questi livelli di significato.
C’è ancora un altro motivo estetico: quello relativo allo stile. Senz’altro si ritrovano qui, in ogni argomentazione, una peculiare eleganza, una raffinatezza tattile, un minimalismo sensibile: uno stile estetico ben riconoscibile, che forse impedisce allo scienziato in quanto individuo di essere del tutto fungibile e sostituibile. Avrebbe potuto, questo libro, essere scritto diversamente? Suggerisco anzi di vedere come nascosta maschera dell’Autore la leggiadra e ‘leggera’ figura (noterà poi Calvino) del poeta epicureo e filosofo naturale Cavalcanti, delineata nella novella di Boccaccio e introdotta al cap. 11 attraverso la nota citazione: «Si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse». Ciò si lega forse a un ulteriore – e ultimo – aspetto estetico: in tutto questo discorso, c’entra qualcosa, l’arte? Il passaggio da una dottrina della sensibilità a una filosofia dell’arte è stato velocemente tematizzato dalla filosofia. Non potremmo certo richiedere a quel verme, a quelle cellule primordiali, addirittura un qualche tipo di finzione estetica; sebbene, nel meccanismo di copia efferente, sembra quasi di scorgere l’inizio di uno sdoppiamento mimetico. Non sfuggirà comunque al lettore che questo libro è anche una autentica narrazione, cioè un racconto capace di donare senso, in cui le avventure cognitivo-sperimentali delle bestiole menzionate risultano molto più appassionanti, stimolanti e nutrienti di tante banali storie coi loro vieti personaggi; e che, come tutte le analisi a forte componente estetica, anche questa resta alla fine orientata da quell’oggetto incatturabile che, sotto la specie della bellezza, è la verità.
Ma quale verità? L’Autore afferma saggiamente, nel suo anti-credo deflattivo e conclusivo, di poter enunciare solo disincantate “credenze dal contenuto imperfetto e di durata precaria” (p. 171). Quanto sia profonda la consapevolezza della complessità inesauribile di queste problematiche, lo dimostra del resto l’averle evocate – relegandole insieme sullo sfondo – tramite le parole inarrivabili di J. L. Borges, applicabili egualmente a scienza, arte, filosofia, e con le quali ci sentiamo di concludere: “quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico”.

Riferimenti:

Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, “Animalia”, 6, Adelphi, Milano 2021.

Giorgio Vallortigara – Massimiliano Parente, Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, La Nave di Teseo, Milano 2021.

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