EURICLEA

EURICLEA

 

di Caterina Bonetti

Immagini di Stefania Onidi

 

“Non è facile” ha esordito rigirando fra le mani un bicchiere di vetro spesso e osservando le tracce di vino rimaste sul fondo, come se stesse divinando i suoi pensieri.
“Non è facile vivere solo per ricordare, per custodire un mondo a cui siamo state assegnate, ma che non ci appartiene”.
Il bar della stazione era ormai deserto. Mancavano pochi minuti alla chiusura, sul tabellone lampeggiavano i numeri di binario delle ultime corse in partenza, mentre un addetto alle pulizie trascinava la lava pavimenti lungo il corridoio, verso la sala d’aspetto.
“Un pacchetto di Malboro morbide e un biglietto del tram”.
Aveva incominciato a parlare a voce alta mentre il barista contava il resto. Mi ero voltato a osservarla: non aveva l’aria di chi ha passato troppo tempo davanti a una bottiglia, sembrava solo molto stanca. Un foulard giallo annodato intorno al collo segnava il confine fra il cappotto marrone e la sua carnagione olivastra.
“Parlo con te, sì, se hai tempo di ascoltare. Oppure vai di fretta, come tutti quanti?”.
Mancavano tre minuti alla partenza del 37. Forse correndo sarei riuscito prenderlo e sarei stato a casa per le dieci, ma tanto nessuno mi aspettava.
“Avevo appena vent’anni e venti sono stati i buoi che il signore ha dato a mio padre per comprarmi come seconda moglie. Venti buoi e un patto, che non si poteva rifiutare, con il signore di Itaca, che possedeva i campi, le vigne e le stalle. Nella mia stanza, il giorno prima delle nozze, nessuna dolce parola e nessuna concessione al dubbio. Il signore comanda e il buon padre ha insegnato alla figlia a tacere e abbassare lo sguardo. Cos’altro puoi volere, d’altronde, se non compiacerlo? Fuori, per strada, le voci delle donne che preparavano il pranzo, mentre gli uomini sistemavano gli attrezzi da lavoro. Giorno libero per le nozze del signore, giorno di festa. Silenzio e pazienza i miei doni da portare in dote”.
Aveva ripreso a parlare, lo sguardo al bicchiere, senza aspettare una mia risposta. Il barista stava chiudendo la cassa: “Volete ancora qualcosa? Altrimenti pulisco la macchina del caffè”.
Ormai era tardi per prendere il tram, sarei tornato con l’ultima corsa.
“È un po’ matta, lascia stare”. Le parole, pronunciate ad alta voce per sovrastare il fischio del vapore, il cozzare dei piatti, non sembravano averla raggiunta. Ovunque lei fosse, taceva.
Solo dopo qualche minuto aveva sollevato lo sguardo: “A qualcuno invece non hanno mai insegnato il privilegio del silenzio. È un peccato, ma agli uomini non serve”.
Piegava con calma, in triangoli sempre più piccoli, il tovagliolo di carta che aveva davanti. Le mani curate, le dita fasciate da anelli ristretti dal tempo.

“Avevo vent’anni e un figlio non mio da cullare. Ulisse si chiamava, eroe d’infinito ingegno, grazie al quale fu vinta la guerra di Troia. Del suo viaggio di ritorno a casa, delle sue imprese, ogni cosa è stata narrata: i vinti dalla sua mano, le terre, le amanti, la sua nostalgia di casa, ma le parole a cui rispondeva sorridendo, quando la notte svegliava il suo pianto, quelle nessuno le ricorda. Si sono perse nel mio silenzio”.

“Dieci minuti e poi chiudiamo”, il barista le aveva versato l’ultimo goccio di vino dal fondo di una bottiglia, prima di gettarla in una cassa, insieme alle altre. Lei era di nuovo lontana.
“Ricordo la sera che lo vidi tornare dalla caccia al cinghiale. Non era che un ragazzo, ma suo nonno, in cambio del nome e di un felice destino, volle che si cimentasse in battaglia col mostro. Lo uccisero alla fine, lo portarono al palazzo. Insieme venne Ulisse, scortato dai compagni che lo sorreggevano. La bestia gli aveva lasciato sulla gamba una ferita profonda, ma la storia, scommetto, tu già la conosci. Tutti la conoscono…”.
Non sapevo che cosa rispondere. Non sapevo nemmeno se quella donna stesse davvero parlando con me o se stesse soltanto rivivendo a voce alta un racconto lontano, da banchi di scuola.
Il barista aveva raccolto gli ultimi bicchieri sui tavoli, passato lo straccio e spento l’insegna sulla strada. Lei aveva estratto dalla borsa un piccolo specchio e con le dita si stava ravviando i capelli sulla fronte.
“Non è facile vivere una vita disposta da altri, neppure quando gli altri ti chiamano fortunata. Sposa senza dote, nutrice del signore. Cosa vuoi che sia vivere senza amore, signora fra i servi del palazzo? Questo per me era stato disposto dal Fato. Quando Ulisse è partito sono rimasta al fianco del vecchio padre, della sposa, del figlio da consolare. Sola, ancora una volta, a metà strada fra la moglie che avrei potuto essere, la madre che non ero stata, la vecchia che ancora doveva venire. L’amore non l’ho mai provato, non era previsto. Nessuno mi ha chiesto se volessi restare quando i Proci hanno invaso le stanze del palazzo, nessuno ha preteso di cacciarmi. In silenzio ho conservato la stessa memoria che di giorno Penelope tesseva, di notte disfaceva, dimenticando le fatiche del tempo che passava, facendo un patto con i ricordi, ma con minor fantasia. Vent’anni sono lunghi da attraversare senza vivere grandi avventure. Vedere ospiti arrivare e partire, aspettare un ritorno con sempre minor speranza. I giovani che crescono e se ne vanno, tu rimani a raccontare sempre la stessa storia, a tener viva la memoria, invecchiando”.
Il rumore della serranda che si stava abbassando aveva interrotto il suo racconto per un istante.“Invecchiando” aveva ripetuto “per tutti questi anni, mentre i giovani crescono e partono, come Telemaco”.
Aveva chiuso di scatto lo specchio con una smorfia di disgusto, come se avesse visto qualcosa, scostando i capelli dal viso, di osceno.
“Quando Ulisse è tornato io e Argo soltanto l’abbiamo riconosciuto. Il cane ormai stanco, la vecchia nutrice. Lui è morto felice, ritrovato il padrone. Il suo cuore non ha retto alla gioia e io, che dalla gioia avrei voluto gridare, correndo a portare la notizia alla sposa vicina, sono stata costretta al silenzio dalla mano che tante volte avevo afferrato, sostenendo incerti piccoli passi.
Il silenzio protegge chi racconta e chi è raccontato, e l’eroe non mostra una maschera solo davanti ai nemici, ma anche nel silenzio del ricordo di un bambino che piange inconsolabile. L’eroe porta il peso della sua perfezione, diventa nemico a sé stesso invecchiando. Il silenzio protegge la sua vanità. Degli anni trascorsi in silenzio, a osservare paziente la mia vita attendere la fortuna di qualcun altro, sempre qualcun altro, non importa a Nessuno. Poco importa che il ritorno abbia un senso solo se si ha un posto in cui tornare, dove qualcuno ancora si ricorda di te. E ti aspetta”.
Aveva finito l’ultimo sorso di vino e si era alzata, sistemando le pieghe del cappotto, come se il suo tempo fosse terminato.
“Ti lascio qui i soldi Paolo, ci vediamo domani” e si era avviata verso l’uscita.

“La conosce?” avevo chiesto allora.

“Poco, non ci ha mai parlato della sua vita.

Non è sempre stata così: quando il bar lo portava avanti mio padre, pace all’anima sua, lei arrivava qui ogni giorno alle 7.30 in punto. Caffè e cornetto, dal primo settembre al trenta di giugno. Insegnava al liceo Petrarca, qui dietro, in piazza Caduti e questo è tutto ciò che so. Buongiorno, arrivederci e grazie sono le uniche parole che le ho sentito pronunciare per anni. Sempre sola, sempre ben curata, la borsa appoggiata sulla spalla e una cartelletta in mano. Poi un settembre non è tornata. L’estate era finita da un pezzo quando è arrivata al bar, in una mattina di nebbia, si è seduta là, proprio a quel tavolo in fondo.
Caffè e cornetto? le ho chiesto, ma lei ha semplicemente scosso la mano e mi ha chiesto di portarle un tè soltanto, poi un panino a pranzo e un bicchiere di vino rosso verso sera. Così da allora, ogni giorno, resta seduta a quel tavolo a far scorrere le ore, senza far altro che raccontare questa storia, quella che dice essere la sua storia: quella vera nessuno la conosce. Vive sola le sue giornate qui dentro, credo che a casa non l’aspetti nessuno”.
Aveva chinato leggermente la testa per passare sotto la serranda abbassata, poi si era fermata, voltandosi per guardarmi, finalmente, negli occhi. Non ho mai capito chi o cosa avesse visto allora.“Ne ho conosciuti tanti come te. Li ricordo tutti, uno a uno, e quante storie potrei raccontare. La mia, invece, non vale la pena di essere raccontata. Non vale l’inchiostro sulla pagina, il tempo della memoria, che a lungo ho custodito, ma grazie per avermi ascoltata. Io non sono Nessuno. Mi chiamo Euriclea, questa è la mia storia”.

1 Comment
  • wepea
    Posted at 03:00h, 01 Marzo Rispondi

    perfect article, i love it

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