La sirena di Palermo, o la Sicilia salvata dai bambini

La sirena di Palermo, o la Sicilia salvata dai bambini

 

di Giovanna Soffientini

Dipinti di Dania Mondello

 

Sai che il mare  ha una sua voce?

Per sentire cosa dice

scegli un tempo silenzioso

quando il sole è più prezioso.

Scegli l’alba di mattina

o la sera maggiolina:

è lì il mare che sussurra

come canto di sirene

la sua voce verde e azzurra

la sua voce che va e viene

e se parli ti risponde

l’infinito delle onde.


Chiara Carminati,Parole di mare

 

 

Esiste un breve racconto di Gianni Rodari, che riporterò in appendice, il cui titolo è La sirena di Palermo. Non so perché Gianni Rodari decise di scrivere questo racconto, perché lo ambientò  qui e soprattutto non so perché decise di collocare la storia in un capitolo del suo Libro degli errori (1977) nella parte chiamata “Trovate l’errore”. Forse proverò a immaginarlo più avanti.
Mi piace comunque pensare che oltre alla sua straordinaria Grammatica della Fantasia (1973) l’autore avesse in mente una singolare Geografia della Fantasia, nella quale albergavano personaggi straordinari, strampalati, buffi, utopistici abitanti di città d’Italia immaginarie o reali nelle quali collocava storie scaturite dalle caratteristiche dei luoghi. E sicuramente Palermo, città-porto, i cui pescatori ancora oggi possiamo vedere intenti a tessere e aggiustare reti, ben si adattava ad accogliere, proprio per mezzo di un pescatore, questo piccolo essere, metà bambina, metà pesce.

Ogni volta che nel corso dei miei laboratori creativi e di lettura mi è capitato di leggere ai bambini La sirena di Palermomi è accaduto di pensare – e quasi sempre, di seguito, raccontare – Colapesce, Cola da Messina, un altro bambino-pesce a cui  la sorte affida, in una delle tante versioni della storia, un compito gravoso: sostituirsi a una delle tre colonne, quella rotta, su cui poggia la Sicilia.
Colapesce e Marina mi appaiono come metafore di un’isola che può essere salvata solo dai bambini, ovvero da quelle donne e quegli uomini che dei bambini hanno saputo conservare le virtù migliori. Secondo Giuseppe Pitrè sono diciotto le varianti della storia di Colapesce (o Pescecola, nella versione palermitana), una delle quali termina proprio con il bambino pesce destinato a sorreggere la Sicilia ed è questa la versione a cui ho pensato per la mia breve divagazione sulle analogie e le differenze di questi due racconti, così diversi per epoca e autori. La sirena Marina di Rodari, perduta la madre nella vastità del mare da cui proviene, sarà invece destinata a riempire di luce e storie i vicoli freddi e bui di Palermo con le sue narrazioni. La piccola Sirena di Palermo è allora il rovescio di Colapesce? Proviamo a capire.
Notiamo per intanto che entrambi i bambini-pesce sono esuli, reduci da mondi che li hanno rifiutati (Cola) o in cui si sono perduti (Marina). L’esule Marina si ritrova “a costruire un mondo capace di riconoscere la propria unità nella sua diversità, un mondo in cui le differenze non sono mai irriducibili, in cui si può cogliere qualcosa di se stessi negli altri e arricchirsi a contatto con loro”. (Traverso, 2004, 7).
Mentre l’esule Cola soccombe, o forse si sottrae alla tirannia, restando per sempre sott’acqua.
Marina e Cola sono esseri mutanti che vengono e vanno dal/al mare, lo stesso mare, quello tra Scilla e Cariddi, in cui il mito vuole situare la dimora delle sirene. Cola vive là, di fronte a quel mare e da quel mare, sin da piccolissimo, non riesce a staccarsi.
Ognuno di loro è un “diverso”, ma la loro diversità si trasforma, nel corso delle rispettive vicende, in salvezza per altri esseri, gli esseri umani e la terra su cui camminano. Ognuno di loro racconta la sua verità, quella del mare di sotto e di sopra, in un rimando continuo di stupefacenti narrazioni.
D’altronde “non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra” (Foucault, 2011, p. 321).
I due bambini-pesce, inabissato l’uno, emersa l’altra, a un certo punto del racconto diventano immobili: Cola finisce a reggere su di sé il peso dell’intera isola di Sicilia e la piccola sirena, raccolta da un povero pescatore e ribattezzata a nuova vita col nome di Marina,  viene messa a sedere con la coda coperta, al contrario di Cola accolta e molto amata ma destinata anch’essa a una vita “immobile”.
A lei, pesce-bambina, viene assegnato dal fato il compito di narrare, illuminando con perle-parole che rotolano lungo i vicoli la miseria di coloro che ascoltano le sue storie fantastiche di mare, naviganti, animali e creature delle onde e delle profondità. Portando luce, donando fiducia, risvegliando quel desiderio di amore e conoscenza indispensabile a una vita piena.
Allo stesso modo Cola, bambino-pesce, ogni volta che riemerge dagli abissi in cui desidera e poi è costretto dal re tiranno a tornare e ritornare e infine ad immergersi per sempre, racconta le meraviglie delle creature marine e dei fondali. Storie che si dipanano portate dai venti che dai quattro quadranti sferzano l’isola, l’uno che lascia il passo all’altro, incessantemente.
Colapesce, il maschile, infine s’inabissa, inseguito dalla imprecazione di una madre che stanca di stare sulla riva del mare a chiamarlo, gli lancia la sua maledizione “Che tu possa diventare pesce! – Giusto giusto in quel momento i cieli erano spalancati, e la maledizione cadde addosso a Cola, che in un attimo diventò mezzo pesce e mezzo cristiano”. E poi la crudeltà del tiranno che da quel bambino mezzo pesce pretende nuove prove, continue e sempre più difficili. Fino a quando di Cola non resta altro che “un pugno di lenticchie”. Non immaginava, il tiranno, che Cola avrebbe attraversato i secoli, cambiando tratti somatici, lingua, varcando montagne e vulcani, oltrepassando tutte le valli di Sicilia e riprendendosi quella terra da cui era stato estromesso con una maledizione.
La sirena Marina, il femminile, invece, anche se perduta, emerge e con lei viene a galla l’accoglienza, quell’atto di ricevere e prendersi cura dell’altro, antico quanto il mare: il pescatore/padre adottivo si convince ad accoglierla anche se quella bocca in più da sfamare non sarà impresa facile. E tutta la sua famiglia è felice di accettarla e imparare ad amarla, e poi ancora i bambini e le famiglie dei vicoli e dei quartieri di Palermo che la cercano, estasiati dai suoi racconti.
Esattamente così com’è nella tradizione antichissima di quel mare fra le terre che è il Mediterraneo. In mare non si lascia nessuno, il naufrago si deve soccorrere.
La storia di Marina, fortunatamente, non è quella che il poeta drammaticamente ci canta e che ogni giorno vediamo e ascoltiamo, inermi e inerti:

Nei canali di Otranto e Sicilia

migratori senz’ali, contadini di Africa e di Oriente

affogano nel cavo delle onde.

Un viaggio si dieci s’impiglia sul fondo,

il pacco dei sempi si sparge nel solco

scavato dall’ancora e non dall’aratro.

La terraferma Italia è terrachiusa.

Li lasciamo annegare per negare”

(De Luca, 2002)

Le sirene del mito, che vivono in quel tratto di mare tra Scilla e Cariddi da cui vengono i nostri protagonisti, erano in realtà raffigurate in antichità come esseri metà donne e metà uccelli o, ancora più anticamente, come uomini dall’aspetto truce e con una lunghissima barba. Erano comunque creature che rappresentavano, oltre alla fascinazione, un serio pericolo, al contrario della miriade di rappresentazioni successive risalenti a epoche molto più recenti che le trasportano fino a noi ammantate di una veste seduttiva e con caratteristiche sessuali molto accentuate.

Ma tutti e tutte portavano con sé la potenza del canto. Anche se appare estremamente affascinante, a tale proposito, un breve racconto di Kafka che ribalta totalmente il quadro e il punto di vista: Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatto all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse” (Kafka, 1994).
La piccola sirena di Rodari non manifesta nessuno dei caratteri crudeli delle sirene del mito, né l’aspetto, né la spietatezza, né il lato ferino. Marina mantiene invece inalterata e potente la dote del “canto”, è anch’essa incantatrice, portatrice del fascino seducente del racconto e della conoscenza, quel “sapere più cose” che invano tentò Odisseo. Essa rispecchia quella tradizione consolatrice, rassicurante e positiva, luminosa e attraente che la narrazione ha per ogni uomo e ogni donna, piuttosto di quella fatale e avversa che aveva il canto delle sirene omeriche, sul cui sfondo si stagliava un’isola piena di cadaveri.
Mi piace, a proposito dell’energia contenuta nel canto delle sirene, ricordare qui un breve passo di Lighea, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa:
Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono ovunque” (1976).
E ancora, mi torna alla mente un altro bambino, Robert Luis Stevenson, costretto a letto da una lunga e penosa malattia, anch’esso immobile, ma che, nonostante questo, viaggia e si trasforma, attraversando per mezzo del racconto della sua nutrice Cummy, quella soglia a cui la sua immobilità lo vorrebbe inchiodato:

Il mio letto è come un veliero,

Cummy alla sera mi aiuta a imbarcare
mi veste con panni da nocchiero
e poi nel buio mi vede salpare.
Di notte navigo e intanto saluto
tutti gli amici che attendono al molo,
poi chiudo gli occhi e navigo via
non vedo niente e non sento più…” (Stevenson, 2009)

Luly, così era chiamato il piccolo Stevenson, con la sua poesia trova e riporta a se stesso e a noi, armonia.
Luly, come Cola e Marina, cantori di armonia, quella parola che contiene ciò di cui abbiamo tanto bisogno.
Colapesce e Marina sanano ciò che gli uomini hanno guastato e che sembrano non essere più in grado di curare.
E sembra di vederla, Marina, canto dell’immaginazione, della fantasia e della speranza, la stessa speranza in cui ha avuto fede e che l’ha accolta, circondata da quelle bambine e da quei bambini stupiti ed emozionati davanti a una storia in quel vicolo dove “Di sera ogni bancarella accendeva un lume ad acetilene, e quella luminaria metteva addosso una festosa allegria”.
Marina-armonia. Quasi un anagramma, mancato solo per una “o” in più.
Forse è una “o” che Colapesce le ha donato, potrebbero essersi incontrati, laggiù dove Cola, ancora oggi sostiene la colonna rotta su cui poggia Sicilia. O è forse questo l’errore del Libro degli errori?
Sia come sia,

Favola scritta, favola detta,

Dite la vostra che la mia l’ho detta”.

Riferimenti bibliografici:

Calvino, I., Fiabe Italiane, Mondadori, Milano, 1993.

De Luca, E., “Naufragi” in Opera sull’acqua e altre poesie,  Einaudi, Torino, 2002.

Foucault, M., Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano, 2011.

Graves, R., I miti greci, Longanesi, Milano, 2018.

Kafka, F., Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi 1917/1924, Feltrinelli, Milano, 1994.

Pitrè, G., “Colapesce, ovvero Pescecola” in Il pozzo delle meraviglie. 300 fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Edizione integrale tradotta dal siciliano e curata da Bianca Lazzaro, Donzelli, Roma, 2013, pp. 781-783.

Rodari, G., Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973.

Rodari, G., “La sirena di Palermo” in Il libro degli errori, Einaudi, Torino, 1977, pp. 141-144.

Stevenson, R.L., Il mio letto è una nave. Poesie per grandi incanti e piccoli lettori, Feltrinelli, Milano, 2009.

Tomasi di Lampedusa, G., “Lighea” in I racconti, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 39-76.

Traverso, E., Cosmopoli, Ombre Corte, Verona, 2004.

Appendice

LA SIRENA DI PALERMO

Una volta un pescatore di Palermo trovò nella rete, insieme ai pesci, una piccola sirena. Si spaventò, e stava per lasciar ricadere la rete in mare, ma si accorse che la sirena piangeva e non ne ebbe più paura.
– Perché piangi? – le domandò.
– Ho perduto la mia mamma.
– E com’è successo?
– Giocavamo a nasconderci tra gli scogli. Mi sono allontanata troppo dalle mie compagne e non le ho più ritrovate. Sono due giorni che nuovo in cerca di loro, in cerca di qualcuno, non conosco la strada per tornare a casa.
– Eh, il mare è grande! – disse il pescatore, sorridendo alla sirena. Era una sirena bambina, appena più alta di una bambola. I suoi capelli biondi erano fradici. Dalla vita in giù le sue squame di pesce scintillavano al sole.
– Portami con te, – disse la sirena. – Io non so dove andare.
– Ti porterei, – rispose il pescatore. – Ma ho già cinque figli da mantenere, la casa è piccola e io guadagno poco.
– Portami con te, – pregò di nuovo la sirena bambina. – Io non occupo molto posto. Ti prometto che starò buona e non avrò quasi mai appetito.
– Sentiremo quando sarà mezzogiorno.
– Allora mi porti?
– Nasconditi in quella cesta. Non voglio che la gente ti veda.
– Sono brutta?
– Anzi, sei tanto bellina. Ma la gente trova sempre da ridire e da chiacchierare.
Così il pescatore portò a casa la sirena bambina. Sua moglie brontolò un poco, ma non troppo: la sirena era graziosa, i suoi occhi erano buoni e allegri. I bambini del pescatore erano addirittura felici.
– Finalmente ci hai portato una sorella, – dicevano. Erano cinque maschi e a metterli vicini le loro teste scure sembravano i gradini di una scala.
– Faremo così, – disse il pescatore, – le prenderemo una carrozzella, perché deve stare sempre seduta. Le metteremo davanti una coperta e diremo che ha le gambe malate. Diremo che è figlia di un parente di Messina, e che è venuta a stare un po’ con noi.
 E così fecero.
Il pescatore e la sua famiglia abitavano in un povero vicolo, in un quartiere di vicoli poveri e stretti. Le case erano brutte e la gente stava quasi sempre fuori. Nel vicolo, poi, c’erano tante bancarelle, vi si vendeva di tutto: pesci, formaggi, abiti usati, qualsiasi cosa. Di sera ogni bancarella accendeva un lume ad acetilene, e quella luminaria metteva addosso una festosa allegria.
La piccola sirena, seduta nella carrozzella fuori della porta di casa, non si stancava mai di quello spettacolo. Tutti la conoscevano, ormai. Ogni donna che passava, pensando alla sua malattia, si fermava a farle una carezza e le diceva una parola gentile. I giovanotti scherzavano con lei e fingevano di litigare tra loro per sposarla. I figli del pescatore non parlavano che di lei, erano molto orgogliosi della sua bellezza e le portavano le piccole meraviglie che riuscivano a trovare, vagando tutto il giorno per i vicoli: una scatola di cartone, un giocattolo di plastica, tante cose così.
La piccola sirena adesso si chiamava Marina.

Una sera la portarono a vedere il teatro dei pupi. Chi non l’ha visto non sa com’è bello. Sul palcoscenico del teatro i guerrieri, nelle armature splendenti, compiono imprese meravigliose, battendosi in duello con coraggio. Le principesse portano anche loro la corazza e la spada, e non sono meno ardimentose dei paladini. I loro nomi sono nobili e sonori: Orlando, Rinaldo, Carlomagno, Guidosanto, Angelica, Brandimarte, Biancofiore.
Marina era incantata e felice. Quando poi fu l’ora di andare a letto, cominciò anch’essa a raccontare. Sapeva storie meravigliose, le aveva imparate quando viveva nel mare con le altre sirene. Per esempio, sapeva la storia di Ulisse e dei suoi viaggi, e di quella volta che passò con la sua nave accanto all’isola delle sirene. Chi udiva il canto delle sirene subito si gettava in mare per rimanere con loro. Ulisse voleva udire quel canto, ma non voleva dimenticare e perdere la strada di casa. E così l’astuto capitano riempì di cera le orecchie dei suoi marinai, perché badassero alla nave, ma nelle proprie orecchie non mise nulla: poi si fece legare all’albero maestro, per non provare la tentazione di gettarsi in mare. Le sirene gli cantarono le loro canzoni più belle ed egli pianse ascoltandole, pregò i suoi compagni di scioglierlo. Ma i suoi compagni avevano le orecchie tappate, non udivano e non capivano nulla. Da quella volta Marina non cessò mai di raccontare. Erano storie di tutti i popoli e di tutti i tempi; delle genti che l’una dopo l’altra avevano messo piede sulla terra siciliana o ne avevano corso il mare: Fenici, Cartaginesi, Greci, Romani, Arabi, Normanni, Francesi, Spagnoli, Italiani… E storie di pesci, di mostri sepolti negli abissi marini, di navi affondate e spolpate lentamente dall’acqua.
Intorno alla sua carrozzella, nel povero vicolo, c’era sempre un crocchio di bambini. Sedevano silenziosi sui gradini della casa del pescatore, si accoccolavano sul selciato, spalancavano i loro occhi di carbone e di diamante, e non erano mai stanchi di ascoltare.
Ogni donna che passava si fermava un momento, e quando andava via si asciugava una lagrima.
– Quella bambina è una sirena, – dicevano i vecchi pescatori. – Guardate come ha incantato tutti. E’ proprio una sirena.
Più nessuno, ormai pensava a lei come a una povera bambina infelice perché non poteva camminare. La sua voce era chiara e squillante, e nei suoi occhi c’era sempre una luce di festa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4 Comments
  • Acquaviva Angela
    Posted at 12:51h, 23 Febbraio Rispondi

    A questo mondo c’è sempre qualcuno che viene accolto(fortunato) e qualcun altro che viene respinto(sfortunato).Marina e Colaoesce appartengono al mare a partire già dal loro nome,e amo paragonarlo ai due momenti dell’onda,quella che arriva dal mare verso la terra(Marina) e quello che vi fa ritorno(Colapesce).Tutto bellissimo,poetico e magico quello che ho letto.

    • Giovanna Soffientini
      Posted at 18:17h, 23 Febbraio Rispondi

      Il suo commento è profondità e poesia, grazie infinite, Angela!
      Giovanna

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    Posted at 09:31h, 24 Febbraio Rispondi

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  • Roberto Giangreco
    Posted at 12:14h, 25 Febbraio Rispondi

    Grazie, ho apprezzato veramente molto la sua analisi di un racconto che ho trovato subito particolarmente poetico e profondo, e che adesso ho potuto inquadrare il una prospettiva che gli rende ancora più giustizia…

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