Nei Giardini di Villa Piccolo: Giovanna

Nei Giardini di Villa Piccolo: Giovanna

 

di Roberta Schembri

Immagini dall’archivio della Fondazione Piccolo (in copertina e all’interno un disegno di Casimiro Piccolo)

 

 

Non so quale archetipo si muovesse dentro Giovanna Piccolo. Un misto di dee interiori.
In lei si esprimono i tratti di Estia, la dea del focolare domestico: perché Giovanna, come i suoi fratelli Lucio e Casimiro, come sua madre Teresa, da casa sua, da Villa Piccolo, uscì rarissime volte, ma anche perché la cucina per lei fu un luogo sacro.
In lei viveva Artemide, la dea dei Boschi e della Natura incontaminata: perché la natura silvestre che le scorreva tra sangue e linfa fece sì che Giovanna vivesse di piante e tra piante, creando nel parco della villa di famiglia un lussureggiante, stravagante e malinconico giardino, attraverso cui espresse sfumature d’interiorità a tratti inaccessibili.
Infine, ospitò Afrodite, la dea della bellezza alchemica, la forza definita dalla scrittrice Jean Bolen come trasformatrice, perché la costante ricerca del bello crea e muove, per tenere viva energia e passione.
Forze contrastanti, dunque, abitarono in Giovanna Piccolo, una figura siciliana in realtà un po’ fuori dal tempo e dallo spazio, anche se passò la maggior parte della sua esistenza a Capo d’Orlando, dopo essere nata a Palermo nel 1891.

 

 

Legatissima a sua madre, imparò fin da giovanissima l’arte della cucina, grazie anche alle ricette francesi della bisnonna, che per diversi anni aveva vissuto a Parigi. Condivise l’amore per l’arte con i due fratelli: Lucio fu poeta, occultista, studioso, presentato con orgoglio da Montale per la profondità dei suoi versi. Casimiro fu invece pittore, per lo più di mondi fantastici.
Animi poetici e indagatori, dalla cultura sconfinata, pervasi dal desiderio di dare forma al loro mondo interiore: questo accomunò tutti e tre i fratelli, una concentrazione anomala di sensibilità artistica.

Il padre aveva lasciato la famiglia per una ballerina, così che per i figli fu proprio la creatività a trasformare il vuoto di quella figura in una tela bianca che chiedeva solo di essere riempita.
Un senso d’esilio misto all’aspro dell’abbandono si insediò nella famiglia, visto che Donna Teresa fu costretta a lasciare Palermo per trasferirsi in quella casa in cima al promontorio di Capo d’Orlando, dove il vento e la salsedine le ricamarono, anno dopo anno, uno scialle di nobile e dignitosa consolazione intorno alle spalle.
L’arte come medicina, l’arte come cura, l’arte come espressione di sé. L’arte senza la quale quella casa sarebbe stata solo un muro bifronte, verso il mare e verso la pianura, verso il dolore e verso l’apertura, in un ritmo di sistole e diastole, quello stesso che d’altronde chiede a tutti, di continuo, di ripartorire noi stessi.
E poi quel parco, che oggi tutti possiamo vivere e ammirare perché lasciato in eredità -alla morte di Giovanna- alla Fondazione Villa Piccolo gestita dagli enti di Capo d’Orlando, sarebbe stato solo un pezzo di terra.
Nel corso degli anni, con entusiasmo e disciplina in egual misura, Giovanna diede vita al parco inserendo, di anno in anno, con certosina attenzione agli accostamenti, ai microclimi, alle zone d’ombra e di luce, glicini, distese di ortensie, roseti, specie botaniche esotiche e rare, come la Puya Alpestris: nell’inverno tra il 1950 e il 1951 arrivò un vasetto dal Brasile contenente dei semi che, dopo aver attecchito nei primi tre anni, fiorirono dopo altri undici, in uno spettacolo di colori saturi e particolarissimi che ammiriamo ancora oggi, dalla durata di tre mesi all’anno.

 Giovanna Piccolo, schiva perché timida, impacciata tra la gente a cui comunque lasciò alla fine tutto ciò che possedeva, fu una di quelle anime-radici, quelle che crescono sotto, come quei fiumi carsici che quando poi affiorano creano scenari irripetibili e d’ispirazione collettiva.

Le piante crearono con lei un tutt’uno, fluttuavano al ritmo del suo essere e lei con loro. Gli stessi fratelli sembravano intravederne le presenze nascoste, quelle che Casimiro chiamava esseri elementali, così presenti nei suoi dipinti sotto forma di elfi, fate e creature fantastiche. Creature né buone né cattive, ma semplici spiriti di quel promontorio.

Sono sempre stata convinta che i luoghi si imprimano nel retro-cucitura di ognuno di noi, nel fondo delle pupille, nei gesti del carattere e nei modi di stare al mondo; che ti segnino sulla corteccia interna del tuo essere così che, crescendo, quel taglio troverà, nell’insieme dei tuoi nodi, modi precisi -tuoi e solo tuoi- di manifestarsi. Capo d’Orlando è un luogo che si muove mentre sta fermo: si muove da sotto e lo fa quando nessuno se ne accorge, quando gli orlandini dormono, quando le gigantesche foglie d’agave si stiracchiano. È un avamposto davanti a un quadrato di mare scaldato ripetutamente da Stromboli e Vulcano, dietro i Nebrodi che la spingono ad esistere, tra Palermo e Messina che, come un padre e una madre, la chiamano a prendere corpo.
Giovanna Piccolo: più leggo notizie su di lei, più me la immagino così, fatta della stessa sostanza di Capo d’Orlando.
Ora la sento, e anche il mio scrivere inizia ad agitarsi. Caricherei ogni parola, rafforzerei le doppie, trascinerei ogni vocale; cercherei la soavità in qualunque suono ma non nelle parole, che ora mi sgorgano, forti e possenti, come altro da me. È questo un tipo d’esperienza che attraversa di continuo la coscienza di noi siciliani, quella di vivere a metà, tra il trasognato e il disincarnato, che a tratti sfiora l’indifferenza, in contrapposizione al nostro carattere prepotente, segnato da una volontà feroce.
Ogni siciliano, di ogni punto dell’isola e a qualunque tempo appartenga, finisce e finirà per apparire sempre un personaggio esule, fuggito da pagine di letteratura italo-sudamericana; pescato, intinto e ripescato dal foro di un calamaio d’inchiostro scuro: al posto della lenza, un pennino uncinato e mitopoietico ci ha fatto da forcipe, come se, colti da un raptus dionisiaco, Sepulveda, Allende, Saramago, Pirandello, Verga, Jodorowsky, Esquivel, tutti loro e altri ancora, dopo essersi ubriacati e amati e odiati e riamati, dopo aver atteso nel dormiveglia che le stelle tramontassero, avessero steso, inebriati di fuoco e sciavuru di mari, le trame della nostra vita.

3 Comments
  • Maurizio
    Posted at 10:48h, 29 Gennaio Rispondi

    Bellissimo, grazie 🙏

  • Fabio Ventimiglia
    Posted at 11:10h, 29 Gennaio Rispondi

    La famiglia Piccolo è come se avesse vissuto in un’età di mezzo. Apprezzo molto questo articolo.

    • Ivana
      Posted at 11:23h, 29 Gennaio Rispondi

      Grazie. Ne siamo felici.

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