Aura

Aura

Testi e immagini di Alessandro Celani

a cura di Ivana Margarese

 

 

Torcello

Sull’isola gli uomini prendono in moglie statue di marmo. Ogni primavera le statue diventano donne e da loro nascono figli e figlie: la vite, il glicine, la rosa, il gelsomino, il geranio. Solo una volta nella vita partoriscono in inverno, dal ventre di pietra, il lucido alloro.

 

Caserta

Cos’altro è la vita se non l’intersezione di qualcosa che esiste con qualcosa che non esiste.

 

Comincio con il chiedere del titolo Aura, un titolo evocativo e che non può eludere un richiamo anche al pensiero di Walter Benjamin e al suo legare insieme vicinanza e lontananza.

Alessandro Celani: Non è facile scrivere alcuna parola che non intersechi il tracciato del pensiero di Walter Benjamin. Ancor di più scrivere la parola aura. Certamente è stato così per me, ma in un modo intimo e a me quasi ignoto. Una sorta di visione o di deja vu, piuttosto che un’ispirazione o una citazione. Invece è più corposo nella mia coscienza il riferimento al mondo antico, al significato primordiale della parola, alla sua collocazione nella lingua greca. Nel mio libro la parola aura, dove compare e dove è solo allusa, ha il significato semplice e originario di soffio, un significato che parte da lontano. Il soffio implica un gesto. Un’azione che può essere umana, naturale, intenzionale, casuale, debole, forte. Si tratta di un evento senza sostanza e dalle qualità molteplici, che si sviluppa in modi imprevisti, che è percepito in forme e intensità diverse. L’aura è ancora questo per me. Il soffio che porta alla luce il volume, lo spazio, la presenza. Il concetto di Benjamin ha una forma piuttosto filosofica, per ovvie ragioni, egli definisce l’aura: l’apparizione unica di una lontananza per quanto questa possa essere vicina. E tuttavia riportandola alla natura delle cose essa è ancora vera. Come quando si soffia sulla superficie dell’acqua e questa si increspa pur essendo le nostre labbra lontane ed il soffio invisibile. Io penso, più che ad un’apparizione, a un fremito, un suono. Qualcosa che pur essendo legata all’apparenza visiva ha piuttosto a che fare con la musica.

Qual è il rapporto tra testo e immagine nel tuo lavoro?

Alessandro Celani: Il libro è nato così. Volevo fare un libro fotografico. Per varie ragioni. Ero stanco di scrivere. Dopo molte pubblicazioni di argomento archeologico e storico, il mio campo di studio originario, non mi fidavo più delle parole. Il mio editore e amico (Raffaele Marciano di Aguaplano) mi propone di provare ad affiancare ad alcune immagini un testo. Partiamo con poche fotografie. Una sorta di test. L’editore ne è contento e mi spinge a continuare. Ci diamo un traguardo ambizioso, 99 immagini e 99 testi. Non ci metto molto. Lavoro così: scorro il mio archivio di fotografie, quando sento qualcosa di fronte ad un’immagine mi fermo, ingrandisco l’immagine e provo a scrivere un testo. Il testo non è mai una descrizione dell’immagine. Lo spunto iniziale può partire da elementi diversi, un colore se si tratta di una fotografia a colori, un elemento visivo, la combinazione di due o più elementi dell’immagine, una storia o narrazione legata al luogo, all’architettura, al dipinto o scultura, al paesaggio. In questo sono stato facilitato dalla qualità specifica delle mie fotografie che spesso nascondono un corto circuito, una contraddizione, una sfasatura. A queste tensioni, per così dire, io aggiungo il testo che prosegue il lavoro di contrappunto con l’immagine, una sorta di attrito, di frizione. A volte più acuta a volte sorda o quasi impercettibile. Alcuni dei testi sono stati scritti infatti pensando piuttosto al loro suono, o alla loro forma grafica, più che al significato vero e proprio. E hanno rimodellato le immagini, almeno ai miei occhi, inserendosi nella trama visiva attraverso le fratture che essa conteneva.

La divisione per città ( fotografia e testo) nel libro mi ha suggerito un’associazione con la mnemotecnica. Attraverso le pagine il lettore viene a contatto con ricordi e suggestioni.

Alessandro Celani: Ogni viaggio è un viaggio sentimentale. Certamente. Mi fa molto piacere invece il riferimento alla mnemotecnica. Per ragioni diverse, in un libro sulla scultura antica dal titolo Una certa inquietudine naturale (Aguaplano editore), un lavoro molto corposo di alcuni anni fa, mi imbattei in alcuni passi di Quintiliano e di Vitruvio che mi colpirono. Entrambi pensavano alla memoria e ai pensieri non solo come luoghi, ma anche come figure geometriche, come volumi. Anche per me è sempre stato così. Via via che si estendeva il raggio dei miei viaggi e si approfondiva il mio rapporto con i luoghi, le idee e le convinzioni che maturavo formavano attorno ad essi un reticolo di sensazioni, una struttura quasi evanescente ma forte e stabile, come un corallo. Per questo tornare in ciascuno di essi voleva dire riallacciare le fila di un discorso interrotto, o meglio saldare giunture di senso, circoscrivere col linguaggio e con la fotografia un ulteriore centimetro di spazio. Al di là dei singoli dispositivi formati dalle coppie fotografie/testi il senso più profondo di Aura, la sua aura direi, risiede in questo. Nel portare alla luce il lunghissimo processo di calcificazione del linguaggio sugli oggetti, sui luoghi, sulle immagini. Nello svelare in questo andamento asincrono e ondivago il nostro passaggio fra di essi, il nostro essere in trappola fra montagne insormontabili di senso, spesso il prodotto del nostro bisogno di consolazione, citando un libro di Stig Dagerman che amo molto, e la delicata forza del soffio, invisibile e priva di senso, la forza catartica della natura.

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