Oltre la sposa: Ilaria del Carretto nei versi di D’Annunzio, Quasimodo e Pasolini

“Oltre la sposa: Ilaria del Carretto nei versi di D’Annunzio, Quasimodo e Pasolini”

di Giovanna Di Marco

 

 

Il Monumento funebre a Ilaria del Carretto, realizzato tra il 1406 e il 1408 dallo scultore Jacopo della Quercia, e tuttora all’interno della Cattedrale di Lucca è uno degli esempi di arte figurativa che ha ispirato la letteratura. Il monumento fu voluto da Giunigi, marito della giovane donna morta di parto ad appena ventisei anni, per celebrarla e ricordarla. Del resto, la parola monumento ha nella sua etimologia la radice della memoria da consegnare ai posteri per sublimare il dolore, certamente provato dal coniuge.

Il tema  è quello della giovane sposa di fronte alla morte e riproduce l’immagine della bellezza nel pieno del suo rigoglio, ingiustamente spezzata per volere del fato avverso; il sarcofago sostituisce in qualche modo quella che sarebbe stata l’alcova coniugale. “O dolce fiore, io spargo di fiori il tuo letto nuziale, ahimè! Il tuo baldacchino è polvere e sassi”, ci dice per esempio William Shakespeare per bocca del conte Paride nell’atto quinto della tragedia Romeo e Giulietta, di fronte alla morte apparente della protagonista.

 

 

Ilaria viene associata al suo statuto di sposa fedele in virtù della presenza scultorea di un cagnolino coricato ai suoi piedi, che, a differenza sua, è rappresentato sveglio e solerte. Ciò che colpisce di questa figura femminile, oltre all’eleganza delle vesti e dei panneggi di gusto ancora tardo-gotico, è la bellezza e il nitore di un volto regolare e levigato che mostra la freschezza dell’età giovane ed è per questo ancora più straziante constatare che davvero Ilaria sia stata troppo presto strappata alla vita.

 

 

Nella sua opera, fondata sui principii dell’Umanesimo, Jacopo della Quercia affermò i valori antropocentrici: l’uomo è l’artefice del proprio destino. Il suo contemporaneo Donatello, invece, descrisse con più drammaticità l’immagine dell’uomo nella storia. E allora qual è il destino di Ilaria del Carretto se non quello di essersi risolto in una morte precoce? Ilaria è tutta lì, senza scuotimenti né esasperazioni del dolore; giganteggia la sua bellezza in una forma sobria e composta ed è per questo quindi, per una sorta di distacco e di sospensione temporale, che, rimirandola, il dolore si fa feroce, ma induce l’astante alla riflessione.

Già il grande critico d’arte inglese, John Ruskin, in una sua lunga e accorata descrizione, aveva colto nel monumento a Ilaria la simultaneità e la compresenza del distacco e dell’innocenza. Ma, al di là delle ekphrasis in prosa di vari critici eminenti, ciò che non può lasciare indifferenti è l’interesse da parte di alcuni poeti che, dopo avere visto il suo sepolcro, hanno intrappolato nei loro versi questa donna lontana nel tempo: come replicando lo scalpello di Jacopo della Quercia, hanno superato l’elemento visivo da cui si è generata in modo ineludibile la loro riflessione. Ilaria è andata oltre il suo significato primo, quello della sposa da celebrare e ricordare, e, attraverso le forme conferitele dall’artista, ha raggiunto altri significati, a tratti più precisi, a tratti più sfuggenti. Secondo un atto poetico di libertà le suggestioni si sono trasformate, ne sono sopraggiunte altre e altre ancora e il ‘monumento’ si è fatto dunque ‘documento’ aperto e ricco di spunti, cangiante e screziato, nonostante la sua persistenza nel bianco marmo. I poeti in questione, in ordine cronologico sono Gabriele D’Annunzio, Salvatore Quasimodo e Pier Paolo Pasolini, ma per una effrazione a questo ordine, in questa sede andremo per temi, laddove concordi, laddove dissonanti come per confermare quanto l’immagine potente di questo manufatto abbia potuto sollecitare nuovi e molteplici letture.

 

 

Gabriele D’Annunzio ne parla nel sonetto dal titolo Lucca in quella sezione intitolata Le città del silenzio, contenuta in Elettra (1903). Rivolgendosi al fiume Serchio, la città toscana si identifica con Ilaria del Carretto:

 

Tu vedi lunge gli uliveti grigi

che vaporano il viso ai poggi, o Serchio,

e la città dall’arborato cerchio,

ove dorme la donna del Guinigi.

 

Ora donne la bianca fiordaligi

chiusa ne’ panni, stesa in sul coperchio

del bel sepolcro; e tu l’avesti a specchio

forse, ebbe la tua riva i suoi vestigi.

 

Ma oggi non Ilaria del Carretto

signoreggia la terra che tu bagni,

o Serchio, sì fra gli arbori di Lucca

 

rosso vestito e fosco nell’aspetto

un pellegrino dagli occhi grifagni

il qual sorride a non so che Gentucca.

 

Tutta la descrizione iniziale sembra anticipare Ilaria che è ricordata come moglie, mentre poche sono le parole utilizzate per descriverla: dorme bianca e stesa sul coperchio del bel sepolcro. Il fiume a cui è rivolta la poesia scorre; Ilaria è lì, come se fosse realmente quella donna scolpita, non il suo corpo esposto al divenire. Lo scorrere del tempo è rappresentato dallo scorrere delle acque: Ilaria dunque non c’è più, non si specchia più nel Serchio. Ma il Serchio rimane sempre nel suo fluire come l’eternità bianchissima della donna ferma nel marmo. Le città ricordate in questa sezione di Elettra vogliono rappresentare un aspetto virtuoso di un’Italia che, sotto il profilo politico, è tale solo da qualche decennio. In un viaggio per cittadine del centro-Italia, D’annunzio spera di trovare quella radice proba che risiede nel passato con la finalità di creare una identità nazionale culturale. Ilaria dunque è come il genius loci di Lucca, città che in quella donna trova identità. Il poeta lo segna come tappa fondamentale in una mappa per la costruzione di un sentire comune.

 

 

Anche Pier Paolo Pasolini compie un viaggio nel poemetto Appennino che apre Le ceneri di Gramsci (1957)giungendo però a una cognizione opposta a quella di D’Annunzio. Anche per lui una tappa fondamentale è Lucca, il cui punto focale è Ilaria, che in realtà diventa simbolo dell’Italia tutta, un’Italia che non c’è più.

“È assente dal suo gesto Bonifacio,

dal reggere la fionda nella grossa

mano di Davide, e Ilaria, solo Ilaria…

 

Dentro nel claustrale transetto

come dentro un acquario, son di marmo

rassegnato le palpebre, il petto

 

dove giunge le mani in una

 calma

lontananza. Lì c’è l’aurora

e la sera italiana, la sua grama

 

nascita, la sua morte incolore.

Sonno, i secoli vuoti: nessuno

scalpello potrà scalzare la mole

 

tenue di queste palpebre.

Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia

perduta nella morte, quando

la sua età fu più pura e necessaria”.

Per Pasolini il progresso della storia e la sue evoluzioni sono ingannevoli. Preferisce piuttosto risalire ai valori basilari del popolo intesi secondo i principii più veraci, legati all’innocenza e alla giovinezza. Chi più di Ilaria incarna questi valori e uno stadio puro della storia del mondo? Le radici che si cercano sono dunque quelle dell’ingenuità e della forza primigenia incarnate da Ilaria.

Il poeta, allievo di Roberto Longhi, è quello che entra più nel vivo della descrizione della scultura, partendo dallo spazio interno dove il sarcofago è allocato, come fosse dentro un acquario, probabilmente perché la sua “inquadratura” soggettiva gli permette di percepirla attraverso un’altra consistenza. Le palpebre di Ilaria sono di marmo rassegnato, dunque gravi per qualcosa di inesorabile; le mani sono congiunte al petto in una calma lontananza che ricorda l’ekphrasis del tedesco Johann Joachim Winckelmann a proposito della statua dell’Apollo del Belvedere di cui aveva annotato le caratteristiche di “nobile semplicità e calma grandezza”. In virtù della sua “mole tenue”, espressa da questo ossimoro, la grandiosa figurazione risulta delicata, ormai inarrivabile, da guardare con malinconica distanza e struggimento.

 

 

Il componimento in cui il rapporto con la consistenza del marmo della scultura sembra sgretolarsi e andare oltre, approdando alla riflessione esistenziale è Davanti al simulacro di Ilaria del Carretto di Salvatore Quasimodo, contenuto nella raccolta poetica Ed è subito sera (1942):

 

“Sotto la terra luna già i tuoi colli,

lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse

e turchine si muovono leggere.

Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio

perde colore, e ogni ora s’allontana,

e il gabbiano s’infuria sulle spiagge

derelitte. Gli amanti vanno lieti

nell’aria di settembre, i loro gesti

accompagnano ombre di parole

che conosci. Non hanno pietà; e tu

tenuta dalla terra, che lamenti?

Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto

forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.

Remoti i morti e più ancora i vivi,

i miei compagni vili e taciturni”.

 

Ritorna il motivo del fiume che scorre e, lungo il suo corso, il paesaggio all’inizio idilliaco si popola di figure umane che seguono la vita, il piacere, gli amori come forse fece Ilaria nel passato. Lo stridore è anticipato da immagini che evocano il trascorrere del tempo e la violenza. C’è un senso di inimicizia e un egoismo cieco nel mondo della gioventù che si ama, che, senza pietà, fa uno sgarro a Ilaria. La vera Ilaria però non è il sarcofago che la rappresenta che è appunto un ‘simulacro’: Ilaria, per il poeta è quella che è sotto, sovrastata dai secoli, dalla morte, dalla dimenticanza. Eppure quella donna remota sembra parlare ancora anche se solo il poeta può ascoltarla; il suo è solo un sussulto di rabbia e di paura. Il poeta, di fronte ai suoi coevi, non può che avvertire una solitudine incommensurabile che può risolversi solo nella gemellarità con Ilaria, più vicina a lui degli uomini ‘del suo tempo’, inconsapevoli, nel loro edonismo e fatuità del percorso e del fine: la verità ultima dove lei riposa. Il poeta, per certi versi appare il Naufrago, protagonista del romanzo di Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel – l’uomo che vuole contemplare per sempre Faustine, un’altra donna-simulacro -. E sembra dirci che forse la contemplazione dell’immagine di Ilaria può proteggerlo, facendolo uscire per sempre dalla Storia per proiettarlo in una dimensione sospesa, straniata e distante, l’unica possibile forse per un poeta.

 

 

 

 

 

 

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