Dietro ogni facciata vedere quel che oggi non v’è. Conversazioni con gli Sciamani

Dietro ogni facciata vedere quel che oggi non v’è. Conversazioni con gli Sciamani

Andrea Cafarella in dialogo con Francesca Matteoni

 

C’è un libricino di Ouspensky, davvero prezioso e stimolante, sui tarocchi, in cui il mazzo viene interpretato come se fosse un libro divinatorio, componibile e ricomponibile, una macchina filosofica perfetta, in grado di darci tutte le possibili risposte a tutte le possibili domande. Nicola Bonimelli, che lo ha tradotto in Italia per le edizioni Tlon, nella prefazione scrive: «I tarocchi sono frammenti di questo incontro sconosciuto», l’incontro con «l’Altro, l’Infinito, lo Sconosciuto». Come già altri prima di lui, in pratica, Ouspensky individua il mistero dei tarocchi (come di qualsiasi altro strumento divinatorio) nello spazio invisibile che c’è fra noi e le immagini, dove si crea una corrispondenza, esattamente: un incontro.
(Mi ha fatto pensare a questo discorso una cosa che hai detto tu stessa, durante una presentazione: che si potrebbe leggere il futuro anche utilizzando delle semplici foglie, appena colte da una pianta che ci appare nel cammino). Non so se sei d’accordo con questo ragionamento, ma vorrei sapere, piuttosto, cosa è per te questo spazio inconoscibile che si genera nel gesto di pescare una carta, nel suo discoprimento e nel momento in cui la sua immagine risuona nel nostro spirito dandoci la possibilità di prevedere il futuro, come fosse stato scritto in un altro mondo, dal quale noi possiamo attingere risposte per comprendere il nostro mondo e prevederne o rivederne gli avvenimenti. Non m’interessa il discorso soltanto in relazione ai tarocchi ma penso siano un ottimo pretesto per poter parlare di tutto quanto consideriamo invisibile, irreale o sovrannaturale. Cosa è per te questo altro mondo? Come si esprime nella tua esperienza personale? Cosa significa concretamente e con quale forma esso si può manifestare?

Definire l’altro mondo è per me ridefinire questo mondo dove agiamo e cadiamo. Di fatto la terra ignota non è che il superamento di una soglia, a volte, banalmente della soglia dell’io. Le vite, visibili o invisibili, si muovono indipendentemente da noi, e noi ne siamo parte. Credere nell’esistenza di più mondi in questo, magari un mondo da cui i morti ci guardano, che può essere lo stesso dove si nascondono presenze teriomorfe, significa proprio radicarsi ancora di più nel qui e ora, vedendolo come un crocevia di voci ed esperienze, sospendendo l’incredulità nello stesso modo in cui si fa silenzio e si lascia parlare l’altro. La mia visione o idea dell’altro mondo viene prima di tutto dall’infanzia: non è qualcosa che ho acquisito, semmai si è chiarita negli anni (e ancora si chiarisce). Si trattava allora di mantenere e difendere un rapporto animistico con la realtà, che non ho mai abbandonato. Poi c’è l’universo onirico e notturno – ho sempre tenuto un diario dei sogni, ne ricordo alcuni antichissimi, e fra di loro ho spesso recuperato il materiale per le mie poesie. Nei sogni talvolta ci sono indizi, presagi o vere e proprie guide, in forma di animali, di creature strane, di persone-maschera, simili a coloro che incontro nel giorno, ma con ruoli e comportamenti diversi. I simboli nei sogni sono personali e fanno parte di una mappatura in divenire dell’anima: mi interessa il modo in cui possiamo percepire le cose come altre da se stesse, portatrici di significati non immediati che indicano a loro modo un’appartenenza a una famiglia spirituale. E infine l’altro mondo è il sentimento del luogo. In questo sono molto vicina alla visione celtica, per cui l’altrove e gli spiriti (o fate, folletti, popolo delle colline) sono la voce della terra. Il mio altrove è in sintesi un ricollegarsi alla terra: quella dove abito, quella da cui provengo, quella che mi chiama. Esemplifico con un sogno (che è diventato, a suo tempo, una poesia), di anni fa. Nel sogno sono in un luogo che conosco e amo, il golfo di Baratti e il bosco sotto Populonia che conduce a una scogliera e a piccole spiagge sassose, la Buca delle Fate. Devo guidare un gruppo di persone nella boscaglia e fra i resti di tombe etrusche. Dal bosco ci ritroviamo a camminare sui sassi e sugli scogli. Accanto a me c’è un lupo grigio. Io e il lupo avanziamo nella nebbia che sale dal mare, gli altri si perdono nel sogno. Lui sente i miei pensieri. Io mi muovo secondo i suoi istinti.
Mi risvegliai da questo sogno carica dell’animale, della soglia che rappresenta ogni riva, del desiderio di camminare là, in quel posto dove parte del mio spirito ha radici. Nella lettura delle carte quello stesso senso di vicinanza con il lupo – imparare a usare altri sensi – prima mi svuota dai pregiudizi, poi prende il posto dell’immagine, la dà un senso fisico. Dove siamo? Chi c’è? Quale lingua parla? L’incontro avviene sulla sponda dove anche io divento uno degli spiriti.

Nel sogno la foschia viene dalle rocce, le apre
come custodie di spettri.
Prima di ritirarsi il mare si raccoglie
in polle, scheletri di sale.
Sei divisa dagli altri, li senti
sconnettere le parole, sfaldarsi –
la polvere qui si fa strumento
solidifica nel petto.

Il muso del lupo fende i tendaggi, l’aria –
c’è una stanza di frasche, vi guardate
ti rovesci nel suo pelo senza toccarlo.
Il lupo conosce lo spazio di chi non ritorna
e non è vero poi che ti attende assetato.

La luce si estingue, non c’è mai stata.
Le fosse occluse da un vento
il freddo acquatico, l’odorato.
Procedete per balzi sulle mani*.

*da: Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014) di Francesca Matteoni

 

Mi colpisce molto questo dualismo animistico/onirico e, inevitabilmente, mi ricorda e mi fa tornare al nostro comune amico Yeats.

«Uomini che vivevano in un mondo dove qualsiasi cosa poteva scorrere e mutare, e divenire qualsiasi altra cosa; e in mezzo a grandi dèi le cui passioni erano nel tramonto fiammeggiante e nel tuono e nell’acquazzone, non avevano le nostre idee di peso e di misura. Veneravano la natura e l’abbondanza della natura e, a quanto pare, avevano sempre per supremo rituale quella danza tumultuosa in mezzo ai monti o nelle profondità dei boschi, dove un’estasi soprannaturale scendeva sui danzatori fino a farli sembrare gli dèi o le bestie divine, e sentivano l’anima levarsi al di sopra della luna; e, come crede qualcuno, immaginarono per la prima volta al mondo il regno beato degli dèi e dei morti felici». (da «L’elemento celtico nella letteratura» in W.B. Yeats, Magia, Adelphi 2019)

E il ragionamento di Yeats mi riporta, altrettanto ineluttabilmente, al concetto che ha stimolato queste nostre conversazioni. Vale a dire l’idea che i primi uomini, venerando la natura, traverso «un’estasi soprannaturale» – che Yeats individua, forse simbolicamente, nella danza – siano riusciti a trasfigurarcisi fino al punto da immedesimarsi, incarnandosi nelle forme e nelle figure che vedevano e veneravano e, tramite loro, guardando mediante i loro occhi, percepire il divino, ovvero se stessi: gli uomini, l’Uomo. In una sorta di rapporto a specchio, nel quale auto-percepirsi, sapersi, riconoscersi esistenti, rispondere perentori alla domanda shakespeariana.

«Avevano passioni immaginose perché non vivevano entro i nostri angusti limiti ed erano più vicini all’antico caos, al desiderio di ogni uomo, ed erano circondati da modelli immortali». (da «L’elemento celtico nella letteratura» in W.B. Yeats, Magia, Adelphi 2019)

Allo stesso modo la realtà naturale (i «modelli immortali») e l’irrealtà (le «passioni immaginose» che potremmo facilmente individuare nei sogni) si guardavano vicendevolmente, mischiandosi in un «antico caos». Un po’ come se i primi uomini comprendessero il materico attraverso l’immateriale, il tangibile attraverso l’intangibile, la realtà per tramite del sogno, e viceversa. Come dici anche tu quando parli dell’interrelazione che passa tra la concezione di altri mondi e l’aderenza totale e onnicomprensiva al «qui e ora».

«La lepre che correva in mezzo alla rugiada stava forse accovacciata quando fu creato il primo uomo e il misero fascio di giunchi sotto i piedi sarà stato magari una dea che rideva in mezzo alle stelle; e con un pizzico soltanto di magia, un lieve cenno delle mani, un lieve mormorio delle labbra, avrebbero potuto anch’essi diventare una lepre o un fascio di giunchi e conoscere amore immortale e immortale odio». (da «L’elemento celtico nella letteratura» in W.B. Yeats, Magia, Adelphi 2019)

Nella tua visione – come in quella di Yeats – c’è un fortissimo elemento metamorfico e caotico, in cui le forze dell’ignoto si miscelano, in modo del tutto “sbagliato” (o meglio: non funzionale) a quelle del noto, del reale. C’è una certa poetica della contrapposizione, fruttifera, generatrice. Mi viene in mente il modo in cui Agnese Grieco apre la sua prefazione al quaderno dei sogni di Arthur Schnitzler, citando Wittgenstein che scrive di William Shakespeare: «Un sogno è composto in modo del tutto sbagliato, assurdo, eppure giustissimo». E a questo punto mi sorge spontaneo pensare alle, altrettanto sbagliate, prose contenute in Una visione di Yeats. Torno, col pensiero, alla cosiddetta «scrittura automatica».
Credo che tutti i nostri ragionamenti scaturiscano dalle nostre esperienze, come anche dai nostri studi o, più in generale, da quello che abbiamo visto. Da tutte quelle suggestioni che innescano dentro di noi quella «danza tumultuosa» di cui dice Yeats. Come può essere stato, per chiunque, leggere Nietzsche o la Bibbia, per la prima volta. Oppure l’aver visto il Guernica o l’aver ascoltato le Variazioni Goldberg. «Quando voi ascoltate Bach vedete nascere Dio» scriveva Cioran nel suo Lacrime e santi.
Io penso che l’Arte abbia in qualche modo sostituito, o comunque affiancato, una certa pratica rituale umana in grado di permetterci di unificare, in un atto mistico, tutti questi nostri doppi: sogno e realtà, la natura e il mondo degli spiriti, studio e pratica.
Penso che esistano alcune opere dell’uomo che riescono a parlarci, a toccarci, con tocco divino, e generare in noi una visione più ampia del tutto – “reale” e “irreale” – e farci «conoscere amore immortale e immortale odio» contemporaneamente compresenti.
Se ti trovi d’accordo con me, mi piacerebbe sapere da te quali sono e sono stati per te questi «testi magici». Se ti sei mai trovata davanti a un megalite (una enorme pietra, un’opera umana degna di rimanere in eterno, un «modello immortale») con la netta sensazione che in quell’immagine tutto potesse spiegarsi, nel modo sbagliato e giustissimo dei sogni. Una o più opere che ti hanno fatto giungere a queste tue convinzioni, donandoti, anche solo per un istante, un pensiero inspiegabilmente definitivo.

Per risponderti parto proprio da Yeats. In una lettera del 1892 (il poeta aveva allora 27 anni) all’amico John O’Leary scrive: «Ho sempre considerato me stesso una voce di ciò che credo essere una più grande rinascita – la rivolta dell’anima contro l’intelletto – che ora ha il suo inizio nel mondo». Che cosa significa? In quegli anni e per Yeats l’arte si mescolava al nazionalismo irlandese, alla lotta per l’indipendenza, e senz’altro a un certo assolutismo politico che non condivido, ma contestualizzo. Quello che mi interessa di questa dichiarazione intima, affidata a una lettera, è la visione di un’arte poetica che abiti il mondo prima di comprenderlo, sezionarlo, strumentalizzarlo. Che lo abiti anche nelle sue forze invisibili, nelle voci che non siamo più abituati ad ascoltare e che sì, partecipano dell’anima, se l’anima è l’essenza vitale che unisce umano, pianta, bestia, sorgente. L’arte, la poesia, hanno per me una dimensione fortemente rituale, sono un rito di restituzione, per cui lasciamo noi stessi e torniamo (o impariamo) a guardare fuori dalla contemporaneità, dalla cronaca, verso quei residui di vero e di tempo che ci superano e ci contengono. Non tutto, dunque, diviene espressione dell’umano, ma al contrario l’umano può sforzarsi, e dovrebbe, di rendere al tutto la sua dignità: alla tempesta il suo spirito o la sua ragione inconoscibile, alle vite il loro spazio. Le cose semplicemente accadono. Può darsi ci sia un’anima in loro, né benevola né malevola, che vuole solo essere se stessa. Le religioni animistiche primitive si basavano, come spiega anche lo sciamano inuit Aua a Knud Rasmussen, sul fatto che la gente aveva paura. Una paura che proviene dal clima e dalle condizioni naturali ostili o difficili, dalla malattia, dalla “sventura”, chioserebbe Simone Weil. Non possiamo mai dimenticare questa paura, anche quando siamo affascinati dalle credenze e dal sistema spirituale di certe regioni del mondo, delle culture nomadi o delle campagne celtiche, come lo era Yeats. La mucca che non dà latte perché se lo sono preso i folletti significa paura, fame. Il bambino che muore troppo presto e viene preso dalle fate significa ancora paura, dolore. Gli spiriti da propiziare nelle profondità marine o nel bosco perché vi sia cibo, sono ancora una volta paura. Rischiamo di dimenticarcelo. Riconoscere nel mondo naturale, voci, presenze, forze teriomorfe è stato prima di tutto un modo per venire a patti con la paura. Ma certo c’è anche lo stupore che il mondo sa generare in noi. Altrimenti come spiegare le pitture rupestri? Che tipo di rito era quello? Propiziava o raccontava e nel racconto diveniva altro, memoria e sentimento di uguaglianza? Può sussistere un nuovo animismo ora, che guardi al mondo circostante come pieno di dignità in ogni sua espressione. Dignità non epurata dalla ferocia e dal dolore, sia chiaro. Ecco, se penso a un monumento umano e artistico a questo, penso prima di tutto a quanto ci racconta il regista Werner Herzog nel suo docu-film La caverna dei sogni dimenticati, girato nelle grotte nel sud della Francia, ora inaccessibili alle masse. Nel buio un essere umano, non molto diverso da noi, affamato e infreddolito, coperto di pelli, cosa fa? Disegna. Forse prega. Incanta. Narra. L’atto poetico nasce insieme al desiderio di sopravvivere, di arrivare a domani. Penso alle opere della preistoria, precedenti al linguaggio come lo conosciamo, quali testi magici a cui tendere. Punta di selce o piccola borsa per le provviste. Resti in musei etnografici. Le pietre di Carnac, protette dalle reti, che rischiano di sprofondare nel terreno – eppure sono lì da quanto? Ottomila anni? Mantengono un mistero, una bellezza, non sappiamo davvero tradurle, sfuggono e restano presenti come un sogno, come la verità ultima che possiamo appena sfiorare. Sono la risposta umana al canto delle megattere, hanno una voce resistente all’addomesticamento e insieme commovente. Potrei citare molti libri che sono testi magici, perché provengo da una cultura libresca, ma mi sembra sempre che tutta la poesia, tutti i miei libri preziosi tendano a questo – al consegnarci a una parola impronunciabile e dis-umana, più forte dell’umano. Ecco, l’avrò detto mille volte, la prima cosa che ha suscitato in me questo sgomento misto a meraviglia è stato il Canto Notturno di un Pastore Errante per l’Asia di Leopardi. Non sono mai riuscita a scindere l’immagine di un pastore sotto il cielo freddo, stellato, stupefacente delle steppe dalla fatica e dalla paura e dall’amarezza del pastore. Cosa c’è di sbagliato? La paura o la meraviglia? Si respingono, si incontrano, funzionano – ci misurano in quanto viventi. Posso camminare per ore in qualche brughiera o bosco per arrivare a un dolmen o per vedere un simbolo, per esempio un doppio-labirinto, inciso su una pietra. Mi fanno lo stesso effetto certe cattedrali – conosci la Pieve romanica di Gropina nell’aretino? Un luogo straordinario, potentissimo. Costruita attorno all’anno Mille, probabilmente poggiava, come molte altre chiese, sui resti di qualche luogo antico di culto. È stratificata nei suoi simboli, presenti nei capitelli dove l’arte porta tracce di figure bibliche, immagini precristiane, orientali, naturali, pagane. Andai lì per vedere la Melusina, la sirena bicaudata che si incontra anche nella chiesa di San Michele a Pavia. E sprofondai nei simboli. Le storie mute che si raccontano su quelle pietre sono più antiche e più forti dei significati, delle interpretazioni, delle religioni.

Le tue parole mi ricordano un pezzo di Björn Larsson (mi sembra sia ne La saggezza del mare) in cui lessi un passo che mi rimase impresso per tanti anni. Larsson sbarcava in Irlanda e aveva un’illuminazione riguardo l’opera di Samual Beckett. Ebbe questa sconvolgente rivelazione poiché si rese conto di quanto quei terreni – l’Irlanda di Beckett – fossero ricolmi di sterco di vacca. E così si rendeva conto dell’importanza di viaggiare lentamente.
Ciò che davvero m’interessa di questo aneddoto è sottolineare la necessità di una «concomitanza». La compresenza di conoscenza ed esperienza, di teoria e pratica, studio e azione. Rumore e silenzio. Per comprendere l’immaginario beckettiano Larsson ha bisogno di andare nei luoghi di Beckett e sentire quegli stessi odori che il drammaturgo irlandese inalava e di cui ha infuso le sue parole (sempre secondo Larsson) – viceversa senza conoscere l’opera di Beckett, quell’odore sarebbe rimasto solo puzza di sterco.
Non credo che per sentire e intendere i testi di Beckett ci sia necessità assoluta di andare a sentire l’odore della merda delle vacche irlandesi, l’immagine però mi sembra sia parecchio simpatica e contemporaneamente esplicativa. Poiché molto semplice.
Credo che l’illuminazione, alcuni intendimenti ulteriori delle profondità del nostro io e dell’universo e degli altri invisibili mondi – che compenetrano il nostro e da cui sono compenetrati – sia frutto di uno studio intelligente, che non si fondi sulla vastità delle fonti ma sulla «qualità della lettura». Al contempo esso si esprime totalmente solo calandosi in un’esperienza significativa, dis-umana – come dici tu –, assolutamente straordinaria, o meglio: straordinariamente assoluta. Possiamo pensare a Krishnamurti o a Wittgenstein. Due personalità estremamente diverse, da ogni punto di vista. Eppure, accomunate da una potentissima compresenza di queste due entità: studio ed esperienza. Aldous Huxley dovette attraversare lo stesso dualismo. Così Rasmussen e pure Aua. Così Gopi Krishna e Oliver Sacks. Osho, Jünger ed Elvio Fachinelli.
Ho sempre pensato che il linguaggio – ovvero lo strumento grazie al quale conserviamo e condividiamo informazioni e conoscenze – presenti dei forti limiti come dei comodissimi punti di forza. Tuttavia (senza addentrarmi in un lungo ed estenuante discorso sul linguaggio), solo attraverso tutti i nostri sensi e le nostre capacità intellettive possiamo comprendere davvero qualcosa, proprio per tale motivo è altrettanto difficile esprimerla – attraverso il linguaggio – dopo averla compresa. Ed è esattamente la ragione per la quale esiste un corollario sterminato e luminescente di racconti dell’invisibile – o faremmo meglio a dire, in questo caso: dell’«incomunicabile».
Sono stato da pochissimo, per la prima volta, nel sito dell’Argimusco. Un altopiano sul quale sorgono diversi megaliti. Purtroppo, non sono ancora stati fatti studi archeologici in grado di dimostrarne l’utilizzo durante le ere passate. Seppure sia evidente una tomba preistorica, una vasca – di uso palesemente rituale – e un leggero e ancora rudimentale intervento dell’uomo anche sulle strutture megalitiche. Nonostante – è vero – queste tracce siano flebili e nascoste dal tempo – lo posso giurare – è davvero eclatante l’energia di quel luogo. Non è solo la posizione geografica (si trova esattamente tra l’Etna e le Isole Eolie ed è circondato da colline ancora vergini) non è nemmeno soltanto la presenza evocativa di queste gigantesche rocce dalla forma insolitamente espressiva, in questo altopiano è possibile percepire una energia inspiegabile, incomunicabile eppure effettiva e di sicuro condivisibile. Lo dimostra il silenzio. Un silenzio sacro che solo il vento può scalfire – viene naturale rispettarlo e parlare solo a bassa voce. Le folate arricchiscono i flussi di quell’energia magica. Se pensiamo poi a un uomo della preistoria che s’incammina tra quei colossi di pietra, senza averne alcuna coscienza pregressa, alcun preconcetto, nessuna informazione che possa prepararlo; il risultato sembra abbastanza prevedibile. Il visitatore di quel luogo comprende subito che si tratta di un tempio, uno spazio sacro. L’uomo preistorico forse non poteva sapere tante cose interessanti sull’Argimusco, eppure di sicuro aveva la capacità di abbandonarsi all’esperienza più di quanto possa fare oggi chiunque di noi.
L’illuminazione è una concomitanza, abbiamo detto, nella quale, però, sia l’esperienza che lo studio, scompaiono. L’uno dentro l’altro.
Così possiamo comprendere Beckett solo se, nell’atto di odorare la merda di vacca irlandese, scompare Godot e scompare la puzza di merda e appare Beckett. Nella merda e nell’assenza di Godot e di Dio e nell’assenza di tutto.
Questa alchimia magica, tra studio ed esperienza, trascendendole entrambe, potrebbe essere definita gnosi. Ma potremmo parlare dell’illuminazione buddista come delle esperienze psiconautiche, della teosofia come degli studi di Jung. Ci sono molti tentativi che percorrono tante strade diverse, vie infinite ma un’unica vetta.
Per capire, per vedere, bisogna essere come il Glicone: con la testa di leone e il corpo di un serpente. Dobbiamo disimparare per conoscere davvero, fino in fondo. E per farlo occorre vivere un’esperienza che stravolga il senso di quello che sappiamo dandogli un nuovo significato, un senso ulteriore, ovvero: il Senso.
Immagino che non staremmo qui a conversare se avessi avuto tu stessa un’esperienza come quella di san Paolo sulla via di Damasco, eppure, penso che ognuno di noi – a differenti gradi di sensibilità, e di potenza trasformativa dell’esperienza stessa – si trovi davanti a delle piccole rivelazioni, essenziali e stupefacenti. Queste azioni, questi momenti illuminanti, possono letteralmente cambiare il corso della nostra vita e insegnarci – farci vedere – qualcosa di estremamente importante: l’essenziale. E l’essenziale è invisibile. Seppure la sua immagine possa essere concreta, l’essenzialità di quell’immagine sta su un piano inesplicabile. L’essenziale è l’invisibile. O almeno parte di esso. Quando incontriamo la persona amata incontriamo una persona in carne e ossa ma il sentimento che proviamo verso di lei – che è la cosa veramente essenziale – non possiamo vederlo, comprenderlo o spiegarlo. È invisibile.
Vorrei sapere, se ci sono stati, quali sono stati per te questi momenti di gnosi? Hai avuto delle esperienze che ti hanno fatto letteralmente vedere l’invisibile? Il tuo invisibile quotidiano, quello che ti ha permesso di prendere le scelte della tua vita, che ti ha consentito di essere chi sei oggi. Sentiti libera, se ti va, di raccontarle, sentiti libera di raccontarle anche se sono impossibili da spiegare e di raccontarle parzialmente se troppo preziose, tanto da non poter essere rivelate. Sentiti libera di dire e non dire, di trasformare il visibile in invisibile e viceversa.

L’invisibile… «dietro ogni facciata vedere quel che oggi non v’è», citando un verso di Amelia Rosselli. Ma anche come dici tu andare all’essenziale, ribaltare il senso comune per un senso profondo, un’intimità ristabilita con quanto ci circonda. Penso di aver voluto “vedere l’invisibile” fin da bambina, quando mi rifugiavo dietro casa nel piccolo orto, aspettando che qualcosa, qualcuno di insolito si manifestasse – uscendo dalla rete, dal rovo di more, dalla salvia, chissà. Ricordo molto chiaramente questa frenesia di vedere con altri occhi, di distinguere un movimento nelle foglie, una presenza sotto le tegole in soffitta. Poi, quando in prima superiore lessi Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, trovai come prefazione una fiaba dell’autore, in cui si narra di un poeta che ogni giorno attraversava il bosco per raggiungere il paese e al suo arrivo raccontava di aver incontrato fate, ninfe, creature mitiche, incantando adulti e bambini, finché… non li vide davvero. E allora, interrogato come al solito, rispose che quel giorno non aveva visto nulla. Proprio nulla. Avevo quattordici anni e mi parve che il racconto non potesse finire altrimenti: non puoi, semplicemente non puoi, vedere con questi occhi l’invisibile. Se accade l’arte muore, muore la trama dei racconti, viene meno la parola poetica, superi una soglia che è un sacro tabù. Se l’invisibile si manifesta, non c’è più nulla da dire. Per questo più invecchio più preferisco quell’arte che resta un mistero perché proveniente da secoli lontani, precedenti la scrittura: preferisco i siti megalitici alle chiese, l’arte rupestre ai quadri, vecchie miniere, resti disseminati nel paesaggio che sorgono sul confine fra il mito e la vista. Non con questi occhi, ma con altri, con quella che i celtici chiamano la seconda vista, possiamo riconoscere presenze straordinarie, possiamo letteralmente sentire le storie. Quando trovai la “seconda vista” in Yeats, nei libri sul folklore celtico e in quella perla che è Il Regno Segreto, scritto alla fine del Seicento dal reverendo scozzese Robert Kirk di Aberfoyle, per spiegare chi e cosa fossero le fate, mi sembrò di capire. Qual era la mia seconda vista? Forse la poesia, il modo in cui ascolto le parole che poi scrivo. Di seconda vista parlavano già i maghi rinascimentali e Pico della Mirandola – magari non si riferiva alle fate, ma comunque alla capacità di lasciar cadere il velo della vita sensoriale e riappropriarci dell’anima, quale parte attiva del corpo, per vedere ciò che è duraturo sotto l’effimero. L’invisibile è quanto permette a una siepe di essere varco per l’infinito, leopardianamente l’invisibile non è mai del tutto estraneo ai nostri sensi, sta sui bordi dove l’immagine sfuma, i suoni si mescolano, l’eco è più chiara della voce. Come si accede a questo invisibile? Attraverso un contatto speciale, prolungato o intenso con le cose del mondo. I luoghi. Alcuni luoghi sono già saturi di storie, ci arriviamo con svariate aspettative, già sapendo molto e dobbiamo sforzarci per non sapere più, disimparare, come dici bene. Penso a tutte le mie gite esplorative nel Regno Unito o in Irlanda o in Bretagna. In molti luoghi ci arrivo “armata”. Ho letto, ho fantasticato lungamente prima di muovermici. Come trasformarli di nuovo in quegli spazi desolati dove l’Eremita dei tarocchi forgia la sua luce? Dove il fuori parla limpido e non corrotto dalla propria interiorità? La via più semplice anche senza essere dei grandi sportivi e camminare fino là. Camminare conduce sempre da qualche parte/per esempio all’invisibile, sono due versi di una mia poesia che uscirà a breve, nell’autunno, in un piccolo libro pensato a due teste con l’artista Ginevra Ballati. Camminare, come probabilmente avrebbe suggerito Thoreau, fa spazio intorno, butta fuori i pensieri, i saperi, il turbinio del cervello e del cuore, ci svuota perché un’altra vista arrivi. In Cornovaglia, due anni fa, ho camminato nella brughiera di Bodmin raggiungendo tor e laghetti con leggende annesse. Pochissima gente cammina per tutto il tragitto, nonostante sia breve, ma un posto non vale l’altro, alcuni te li devi guadagnare. A Dozmary Pool, laghetto senza affluenti, su una collinetta in mezzo alla brughiera, c’eravamo solo io, una mucca e il suo vitello. Tutte le fole collegate alla polla d’acqua, sono decadute quando mi sono seduta sulla riva per i fatti miei. Così è accaduto recentemente, nell’ultimo lembo della Cornovaglia, sperdendomi nei campi per trovare Mên-an-Tol, grande pietra forata, una di quelle di cui parla Mircea Eliade nel suo trattato delle religioni, usata nel tempo per curare varie malattie e aiutare le donne a restare incinte. Come? Passandoci in mezzo, naturalmente, rinascendo. Certo, sono giunta lì con tutte le mie letture. Ma sono anche giunta lì passando per campi e fossi, salutando un dolmen, o quoit, mentre l’orda turistica affollava i paesini pittoreschi della costa e non certo i cigli carichi di rovi e sterpi. Me lo sono conquistato. Anzi ce lo siamo conquistato, visto che ero con mia madre che legge le cartine meglio di me. Abbiamo camminato.
C’è una cosa che tuttavia non ho ancora detto e che porta alle mie esperienze più originali e personali dell’invisibile. La seconda vista di cui erano dotati tanti abitanti delle contee d’Irlanda o delle alte terre di Scozia, era ereditaria. Un po’ come l’arte di guarire, che si tramanda nella medesima famiglia, saltando alcune generazioni. Che significa questo? Che ci sono cose che scorrono nel sangue e nel corpo e dunque nella terra. Che possiamo andare molto lontano, attratti, richiamati da uno spirito, in cerca della nostra ispirazione, ma poi essa si manifesta dove si dimora a lungo, dove può essere un dono ereditario, non importa se tramandato da nonna a nipote o dal cespuglio alla bambina che vi si nasconde sotto. Mi trovo sempre al punto di incontro fra due immaginazioni: quella proveniente dal mio luogo d’origine, che sia la casa materna e il campo o l’Appennino pistoiese o al luogo del mio vivere, includendo Londra, e quella proveniente dalla mia ricerca nei libri, nei miti – quella che è connessa allo stare e al crescere in un posto e l’altra connessa al vagabondare, sebbene secondo una direzione precisa. In quel punto mediano, di incontro e scontro (come essere nomade e radicata insieme?), l’invisibile ha dimora. Forse è una questione legata al tornare. Più ci si addentra nell’inconoscibile e più torniamo. Andando via vedo più chiaramente quanto ho ereditato. Ecco, per esempio, un luogo insignificante che diviene magico nella mia storia personale: dietro la casa materna, c’è quella che chiamiamo la scorciatoia, un sentierino di dieci metri scarsi, un nulla che procede dalla chiesa fra le abitazioni, da cui si vede il campo e poi la mia casa. La prima volta che sentii la parola scorciatoia fu proprio lì, con mia nonna che era venuta a prendermi all’asilo: mi sembrò un luogo importantissimo, segreto. Ancora oggi ci passo sempre per raggiungere casa. È parte della mia mappa, ha la mia energia. Molti anni dopo la scoperta ho scritto una poesia che si trova ora in un librino della collana Isola, con illustrazioni di Zuzu:

Scorciatoia

Forse sono i morti.
Una conversazione fra estranei,
la pioggia.

C’è un limite sul retro della casa
come una piccola ombra.
Una bambina e una nonna girano
gli ombrelli per attraversare.
L’erba cresce in soffioni e ortica sulla scorciatoia.

Mentre camminano il mondo le vede
le cuce in un pegno sopra
un uovo di legno da rammendo.
Ricordano storie che non sono la loro –
l’aria si strega –
vengono su dalle pozze le voci.

Spingi una pietra sotto una pianta
dissangua il futuro dai muri.
Varca la striscia di terra, la fronda
ritorna.

Luoghi così ne ho altri – il Prataccio a Torri, dove c’è uno spirito e il non vederlo è il motivo della sua presenza. Mi sono persa lì, una volta, un po’ avevo paura, un po’ mi veniva da ridere – perdersi a casa propria… E perfino un certo punto sull’acqua, fra gli alberi, nel parco di Battersea a Londra. Ma credo che la mia scorciatoia sia in qualche modo l’occhio del ciclone, il punto focale del mio invisibile, da cui tutte le altre storie sono venute. Una stradina. Una parola.

 

Questa conversazione fa parte di una serie di dialoghi intitolata Conversazioni con gli Sciamani. Cos’è il regno degli spiriti?. Iniziata nel 2017 e pubblicata sul sito web del collettivo CrapulaClub, a cura di Andrea Cafarella e con la partecipazione di Agnese Grieco, Sara Gamberini, Donato Novellini e Pieri Paolo Di Mino.

Le immagini riproducono dipinti dello sciamano peruviano Pablo Amaringo.

Biografie

Francesca Matteoni è una poetessa, studiosa di folklore e scrittrice. Tra le sue pubblicazioni le raccolte poetiche Artico (Crocetti, 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa, 2010), Acquabuia (Aragno, 2014), Libro di Hor (con Ginevra Ballati, Vydia, 2019) e il romanzo Tutti gli altri (Tunué, 2014). Ha all’attivo diverse pubblicazioni accademiche che esplorano la materia del magico, come il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). Conduce laboratori di tarocchi, scrittura e immaginazione. Ha scritto diversi articoli – di cui alcuni sui tarocchi – per L’indiscreto (che potete leggere cliccando questo link: https://www.indiscreto.org/tag/francesca-matteoni/) e nel 2019 è stato pubblicato il suo libro Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ). Un suo saggio sarà incluso nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020) a cura di Federico di Vita. Se volete scoprire qualcosa in più su di lei e su tutti i suoi progetti potete anche visitare il suo blog: http://orso-polare.blogspot.com.

Andrea Cafarella collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria, filosofia e narrativa. Conduce la rubrica «Teriantropica. Uno spazio non-filosofico». Ha scritto e scrive anche per diverse altre riviste. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola antologia della peste (Ronzani, 2020 – curata da Francesco Permunian e con illustrazioni di Roberto Abbiati). Ha curato l’introduzione alla prima traduzione in italiano (di Damiano Abeni) della raccolta poetica Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlön, 2020).

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