Guardare l’arte: Pasolini allievo di Longhi. Intervista a Massimiliano Pecora

Guardare l’arte: Pasolini allievo di Longhi. Intervista a Massimiliano Pecora

di Giovanna Di Marco

Questo dialogo nasce dalla curiosità relativa alle potenzialità della parola, che, nei secoli, ha descritto l’arte, fino ad assurgere a genere letterario precipuo. Il caso di Roberto Longhi è esemplare e, di riflesso, ha condizionato parecchi scrittori della seconda metà del Novecento, tra cui Pier Paolo Pasolini, allievo di Longhi, che, facendosi guidare come dal filo di Arianna del maestro, ha inglobato e fatto proprio un metodo, quello che porta, attraverso la parola, non a vedere, ma a guardare l’arte, condizionando così la sua poetica. Ne parliamo con Massimiliano Pecora, già autore del saggio La parola che guarda (ed. Archetipolibri, 2011).

Scrivere di arte significa scrivere arte. Cosa è lo stile Longhi?

Roberto Longhi (1890 – 1970)

Se ci si fa caso, superata l’impressione di un magniloquente registro ex cathedra, tutte le pagine longhiane, anche quelle di più forte connotazione attribuzionistica, andrebbero considerate come un sforzo rappresentativo di grande portata. Il maestro della critica esplicita ogni momento della sua valutazione tecnica, comunicandolo con un afflato misurato, ma pur sempre entusiasta per la rivelazione di una nuova scoperta. In tal senso l’amplificazione delle metafore longhiane obbedisce a un principio molto simile a quello della macchina metaforica del Seicento, ma lo traguarda infittendolo perfino di neologismi. Quello che più conta è il figuratum, vincolo costante dell’operazione verbale. In fondo, è la lingua che colora il mondo, per citare un intelligentissimo lavoro di linguistica-comparata di Guy Deutscher. L’adozione dell’espressione stile Longhi, ben compresa da Gianfranco Contini e, successivamente, da Pier Paolo Pasolini è quanto mai adeguata, non certo per l’idea longhiana di «equivalenza verbale», ma per la necessità di impaginare la propria intuizione interpretativa all’interno di un discorso stringente e convincente: Longhi ha una sua straordinaria lingua, fatta di participi a suffisso zero, richiami alla fonetica e alla sintassi dell’italiano antico. Tutti gli studiosi che si sono cimentati con lo stile letterario di Roberto Longhi non hanno mai fatto a meno di coniugare il critico con il letterato, rinvenendo le fonti non solo del lessico ma anche della sintassi spesso ardita e infittita di clausole metriche. Esercizio di stile? Barocchismo eccessivo? Impenitente e strabordante concettosità? Tutt’altro! Parafrasando un bel saggio di Matteo Marchesini del 2005, Longhi è uno scrittore d’altro e, come tale, piega la lingua a espressione coonestante di un valore visivo. E se ci soffermiamo sugli pseudo-epigoni longhiani, Andrea Mirabile ha parlato di “funzione Longhi” della letteratura verificando, specie per quanti studiarono, tra gli anni Trenta e Quaranta, nell’ateneo bolognese, quanto lo stile e la tecnica descrittiva fossero un lascito importante per la letteratura e la poesia della seconda metà del Novecento. Non si tratta di analizzare solo i prestiti, ma di capire come la descrizione dell’opera d’arte abbia inciso nella creazione degli spazi e dei luoghi di autori come Pasolini, Bassani e tanti altri. L’allievo Pasolini, grande cultore della forma letteraria che, anche nel pieno delle polemiche realistico-socialiste, ribadiva quanto contasse saper piegare l’arte alla realtà senza per questo derogare all’impianto della prima. In fondo, con acribia ontologica, potremmo stigmatizzare questo: Pasolini e Longhi ci dimostrano che l’arte insegna a guardare e non a vedere!

Pasolini fu un erede di Longhi in poesia e in prosa. A tal proposito, nel tuo saggio, mi ha particolarmente colpito il riferimento al ‘pitocco’ come richiamo al maestro da parte di Pasolini nel Privilegio di pensare. Chi è il pitocco nell’opera omnia pasoliniana?

Pier Paolo Pasolini. Ritratto di Roberto Longhi

«Questa domanda mi rende molto contento dal momento che non hai chiamato in causa il trito raffronto tra gli ipotesti longhiani e la tecnica e la scenografia pasoliniane. Longhi è un maestro per Pasolini nella stessa misura in cui obbliga gli allievi a non dimenticare che un elemento di un codice artistico ha senso se resta legato all’oggetto dell’interpretazione, pena la creazione di un esercizio di stile. Pasolini fa propria questa indicazione precettistica fino a comprendere per un’altra via una nuova declinazione della critica sociologica e storica. Sta di fatto che il rapporto tra Longhi e Pasolini si realizza nella necessità di creare una lingua della pulsione, dell’afflato e della partecipazione sentita al soggetto di cui si parla. Del resto, senza entrare sul terreno della metafisica, quello che più interessa a Pasolini, allievo di Longhi, è l’ontologia del senso comune, quella votata a dimostrare la relazione tra la parte e il tutto, tra il poeta e la società che lo accoglie. Nel Privilegio di pensare, lungo un percorso ferroviario fatto di un paesaggio scabro, le poche concessioni al verde rimandano a un Corot avaro, a un pittore che sembra aver dimenticato la campitura esatta del paesaggio. In altra veste, però, il paesaggio rimanda al triste spettacolo dei passeggeri e all’amara e complessa riflessione del poeta intento a ritrarre una società che sembra sfuggirgli. A differenza di quanto accade per Longhi, Pasolini ha buon gioco a denunciare la sua ontologia del senso comune. Del resto nulla esclude, ma va comprovato testualmente, che il «pitocco» sia un riferimento connotativo al longhiano e post caravaggesco Pitocchetto, secondo la medesima linea dei soggetti che nutrono le pagine di Una vita violenta e di Ragazzi di vita. Possiamo anche mescolare il Pasolini regista con Pasolini poeta, critico e romanziere. Tuttavia, quando lo facciamo dobbiamo stare attenti a non caricarlo di riferimenti longhiani. Molto più proficua è l’influenza di Longhi sul versante della tecnica descrittiva e sul prestito stilematico che consustanzia le varianti dell’opera di Pasolini».

L’interpretazione di Caravaggio da parte di Longhi ha determinato il nostro immaginario collettivo. Meno comuni infatti risultano altri punti di vista che non lo vedono né realista né maudit, ma molto più ortodosso nella lettura dei testi sacri. Quali sono i riferimenti del Caravaggio longhiano più cari a Pasolini?

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Autoritratto, Bacchino malato, Roma, Galleria Borghese

«La critica ne rivela tantissimi e, purtroppo, eccessivi. Si giunge a coniugare, per una misteriosa congiuntura, la biografia del pittore lombardo con quella di Pier Paolo Pasolini. Ovviamente siamo all’eccesso. Longhi, però, ha avuto il grande merito, come attesta la mostra del 1951, di aver visto in Caravaggio un’evoluzione alta e suprema di una linea luministico-lombarda che ha poi ingenerato uno stile straordinario. Come Lionello Venturi anche Longhi si servì in parte di certe soluzioni di Domenico Morelli, prendendo dei granchi colossali. Tuttavia, come ogni studioso che si rispetti, il critico è ritornato più volte sull’opera caravaggesca aggiustando il tiro a favore di soluzioni importanti. Sì, è vero che l’arte di Caravaggio possa inverare il precetto controriformistico nella stessa misura in cui la controriforma e la riforma luterana più ortodossa prendono le distanze dall’iconoclastia. Longhi non ha mai parlato di realismo per Caravaggio così come Pasolini, nel pieno del dibattito degli anni Cinquanta, non si è mai adagiato su certi aspetti tipici della letteratura d’impegno. Il suo impegno, come quello del Caravaggio, si è sempre nutrito di una cifra che resta artistica perché legata a un codice espressivo alto e pervasivo. È da qui che la lezione longhiana prende corpo per Pasolini, elevando a rango di arte anche la più trita realtà, specie quando questa diviene il soggetto di un crivello critico di ben altra portata. L’arte registra la realtà, la supera e la comprende secondo un processo che travalica i confini della mera quotidianità. Ecco che noi spettatori, unitamente al poeta delle Ceneri di Gramsci, della Religione del mio tempo e di Bestemmia siamo il «pitocco Corot», descritti nell’intento di comprendere qualcosa che ci sfugge, si sfarina e si degrada dinanzi alla nostra bovina aridità. In fondo perché l’arte ci parli dobbiamo comprenderla. Avvicinarla significa rischiare lo sgomento di una verità che è, in prima battuta, trasalimento e dolore, meraviglia e suggestione, sincera ammirazione e obiurgazione delle nostre vacuità, come ben ci mostra Roberto Roversi fin dalle prime sezioni di Dopo Campoformio».

 

Massimiliano Pecora

Massimiliano Pecora è dottore di ricerca in Letterature comparate e insegna materie letterarie e latino nella scuola secondaria di secondo grado. I suoi interessi vertono sulla letteratura d’arte, la poesia e la narrativa tra Settecento e Novecento. Ha pubblicato la monografia La parola che guarda, edita da Archetipolibri e diversi saggi su riviste quali Nuovi Argomenti, Esperienze letterarie e Rivista di letteratura italiana. Il suo attuale campo di ricerca, verte sulle applicazioni dei procedimenti neuro-estetici ai processi della creazione poetica.

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