Tradizione del vecchio Piemonte, tra sacro e profano. Intervista a Enrico Bertone

a cura di Silvia Bistocchi

 

Viaggio nelle tradizioni del vecchio Piemonte tra sacro e profano si presenta come uno scrigno magico sin dalla vista della copertina in Val d’Otro, con raffigurato un piccolissimo villaggio Walser, litografia ottocentesca di Domenico Vallino. Scrigno che, una volta aperto, rivela un’infinità di preziosi dettagli sulla vecchia cultura piemontese contadina. Come è nato questo desiderio di ricerca minuziosa e in quale modo lo ha perseguito?

Io provengo da una famiglia contadina e ho sempre apprezzato quel mondo secolare che ha saputo evolversi sostentandosi con i frutti della terra e mantenendo integre nel tempo le risorse di cui disponeva. Oggi la fatica dei contadini è diminuita ed è aumentata esageratamente la produzione ma questo ha un prezzo troppo elevato in termine di inquinamento e di consumo delle risorse naturali.

Ho scritto una quindicina di libri come unico autore e di questi almeno cinque sono totalmente dedicati alla cultura contadina. Si considera convenzionalmente che la civiltà contadina sia finita attorno  alla metà del secolo scorso, il mio scopo è quello di fare in modo che questa cultura immensa non vada totalmente perduta e di cercare in qualche modo di farne comprendere ai giovani i suoi grandi valori: la cooperazione tra le persone, l’amicizia, la semplicità, le fatiche, le paure, le credenze, la fede, l’arte, le conoscenze e tanto altro ancora.

 

Leggendo del passato di questa terra e ricollegandomi al senso della nostra rivista, ho potuto immaginare il Piemonte di una volta come un’isola. Circondato e protetto da tutti quei gesti e rituali di cui viveva e sopravviveva il mondo contadino. Una sorta di superstizione che, tra sacro e profano, prendendo in prestito le sue parole, soffiava energia fra la pelle della gente, resa rugosa dalla fatica.

Che valore hanno per lei le credenze popolari e come potremmo beneficiarne oggi, in questo tempo così agiato, eppure così duro, per chi volesse credere ancora nella salvezza dell’anima?

Non bisogna certo immaginare la società rurale come un mondo spensierato e felice, la maggior parte dei contadini conducevano una vita povera e piena di difficoltà ma per noi che viviamo questo tempo quella vita possiede un certo fascino: è la nostalgia del tempo andato di cui spesso ricordiamo solo gli aspetti più piacevoli. Per me quegli usi e costumi hanno un valore perché appartengono ad una cultura che evolvendosi ha prodotto una società democratica che ha raggiunto un buon livello socioculturale, di quella società che ci ha preceduti noi stiamo già beneficiando.

Oggi molti sorridono di quelle credenze ma sono convinto che le future generazioni sorrideranno anche di molte cose in cui crediamo oggi noi. Nel passato la vita contadina scorreva al ritmo della religiosità, oggi chi crede vive una fede più libera ma la mancanza di vincoli spesso porta anche a una professione più trascurata.

Particolarmente suggestive erano le storie che venivano raccontate ai piedi del Monte Rosa, sia sul versante valdostano sia su quello piemontese. Una delle più note narra che in Valsesia la notte dei morti le anime uscivano dai cimiteri ma, anche dagli anfratti che si trovavano lungo i costoni delle montagne e dai crepacci dei ghiacciai, tutte insieme formavano una mesta processione che saliva verso il Monte Rosa.” Storia che, proseguendo nella sua lettura, mi ha donato non poche emozioni.
Può regalarci una breve suggestione in merito?

Si credeva che la notte dei morti le anime dei trapassati facessero ritorno sulla terra per visitare i luoghi in cui avevano vissuto la loro vita terrena. Molte leggende narrano delle processioni dei morti che, in certi casi, potevano coinvolgere anche un umano vivente che si fosse trovato sulla loro strada: in certi casi le anime si fermavano e lo nominavano cavaliere, quindi lo ponevano alla guida del loro mesto corteo. Tra le testimonianze del passato qualcuno narrò di aver vissuto realmente l’inquietante esperienza di aver partecipato alla processione dei morti e poi di avere impiegato parecchio tempo prima di tornare a vivere secondo i canoni della normalità.

In molti luoghi del Piemonte si credeva anche che i defunti avrebbero visitato la loro precedente dimora terrena, così i famigliari lasciavano sul tavolo dei beni di conforto, come un bottiglione di vino e un piatto di castagne bollite, in modo che i congiunti discesi sulla terra potessero rifocillarsi, addirittura qualcuno dormiva rannicchiandosi da un lato del letto per lasciare il posto a chi stanco del lungo viaggio volesse riposarsi in po’.

Erano gesti che permettevano un ricordo vivo dei defunti e quel periodico ritorno era quasi una dimensione intermedia tra il materiale e il trascendente per alleviare il dramma della scomparsa.

 

Ha dedicato molte pagine alle antiche feste del Carnevale, incantando il lettore con numerosi dettagli sulle stesse. Se avesse la possibilità di rievocarne una soltanto, quale sarebbe e perché?

Il Carnevale era l’unica festa dell’anno di autentico divertimento le altre erano tutte feste religiose. Era un periodo dove si viveva il “mondo alla rovescia” il povero impersonava il ricco e gli uomini si mascheravano e si vestivano da donna, nulla a che vedere con le attuali sfilate di carri allegorici e neanche era una festa per bambini. Peccato che a festeggiare erano soprattutto gli uomini, alle donne era riservato il compito di cucire i costumi.

I carnevali delle varie zone avevano uno spirito comune che era quello della festa e dell’amicizia, in certi casi durante la celebrazione si rinforzavano anche i legami tra le famiglie. Le cito le Barboeros di Villar d’Acceglio (Valle Maira) che si sono svolte l’ultima volta nel 1991, antichi testimoni ricordano che se il carnevale si svolgeva fastosamente la segale quell’anno sarebbe cresciuta più rigogliosa, si credeva infatti che in assenza delle uscite delle Barboeros (maschere) i frutti della terra sarebbero stati scarsi. Il Carnevale dunque era anche un rito propiziatorio.

 

Nell’ambiente alpestre la vita scorre più lentamente e quindi anche i cambiamenti epocali hanno tempi più allungati, scrive. La mia mente di donna cresciuta in campagna percepisce le montagne come gigantesche e sagge creature che proteggono e, a volte, ammoniscono quando il passo dell’uomo sembra prendere un andamento non consono alla sua esistenza. Cosa, del passato, è riuscito a mantenere intatto quel mondo?

La gran parte degli antichi carnevali che si sono tramandati fino ai nostri tempi si svolgono in villaggi di montagna e già questo è la dimostrazione che la vita scorre più lentamente.

La montagna è anche il luogo dello spirito, dove si può meditare ascoltando il silenzio. Il mondo contadino del passato non c’è più ma si può trovare qualche individuo che per scelta vive come nel passato, seguendo i ritmi della natura, ma oggi lo fa più in solitudine. Di intatto rimane il ricordo.

 

Vorrei una riflessione su un tema che sembra diventato ormai un tabù: quello della morte, escluso dalle espressioni culturali più diffuse. Mentre una volta, la dipartita di una persona cara veniva affrontata con tutta una serie di rituali, che si credeva permettessero all’anima del defunto un distacco graduale dalla dimensione umana e forse, anche una elaborazione del lutto più sopportabile per chi restava.

Oggi c’è la tendenza a dimenticare la morte. In una società troppo rapita dagli impegni quotidiani sembra quasi che non ci sia più tempo per pensare a questo appuntamento a cui nessun individuo vorrebbe mai partecipare ma che allo stesso tempo non vi può sfuggire. Nella civiltà contadina vi era uno stretto legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La morte fa parte della vita e nella saggezza contadina questo non veniva mai dimenticato, anche perché vi era un forte legame con la fede; le regole della Chiesa non mancavano di ricordare come il fine dell’esistenza terrena era la morte che avrebbe condotto l’anima in un mondo ultraterreno. Ovviamente per chi crede questo avviene ancora oggi. Va anche detto che un tempo partecipavano tutti ai riti religiosi ma non tutti avevano la cognizione di quello che rappresentavano, oggi la fede è cambiata e chi la pratica lo fa in modo più consapevole.

Nella società contadina si viveva all’insegna dell’essenzialità, prevalevano i principi dell’umiltà e della sobrietà, gli individui non avendo a disposizione altri mezzi univano le forze e vivevano in comunità aiutandosi l’uno con l’altro; nella società moderna l’uomo è molto più solo, dispone di un gran numero di mezzi tecnologici e autonomamente, o in piccoli gruppi, va alla ricerca del successo, del benessere, del piacere ad ogni costo… oggi nella società c’è una grande confusione, si medita poco sul mistero dell’esistenza, mancano i principi in cui credere e un argomento drammatico e «scomodo» come la morte viene spesso ignorato

Monviso

 

In ultimo, le chiedo, con tutte le meravigliose montagne che popolano l’intero territorio Alpino Italiano, come mai ha scelto di dedicare un libro proprio al Monviso?

Posso azzardare l’affermazione che per un piemontese, scorgere quella vetta in lontananza, voglia dire sentirsi a casa?

Il Monviso è una montagna meravigliosa.

Senza considerare le zone montane, il Monviso è visibile da diverse zone di pianura della Lombardia e dell’Emilia Romagnaper questa sua caratteristica i Romani lo chiamavano Mons Vesulus, ovvero il monte visibile, ai tempi in cui le montagne non avevano ancora nomi.

La sua affermazione non è per nulla azzardata perché per un piemontese che torna da un viaggio vedere quella famigliare piramide di roccia che piano piano si avvicina è sempre una grande emozione, però per me i motivi che mi hanno spinto a scrivere il libro sono altri. Fin da ragazzo ho frequentato il territorio del massiccio del Monviso compiendo escursioni di ogni tipo, poi da adulto sono anche salito alcune volte in vetta; queste conoscenze aggiunte alle ricerche storiche fatte nel corso degli anni (da notare che il Monviso è ricchissimo di primati storici, primo fra tutti la nascita del CAI) mi hanno permesso di realizzare il libro Monviso, grazie anche all’Editore Priuli & Verlucca, che è uscito la prima volta nel 2013 in occasione del 150° anniversario della prima salita italiana alla vetta guidata da Quintino Sella.

Ah, il Monviso è la montagna della valle in cui vivo e sono nato!

 

Biografia:

Enrico Bertone (Bagnolo Piemonte (CN), 1954) da anni è impegnato nello studio e nella documentazione della cultura del territorio piemontese con particolare attenzione alla storia, all’ambiente, alla montagna e alla tradizione contadina. Su questi argomenti ha pubblicato articoli, partecipato a convegni e collaborato con gruppi e associazioni, ha contribuito alla pubblicazione di diversi volumi e ha collaborato con riviste e testate specializzate.

Alcune delle sue opere principali. Nel 1998 ha pubblicato il volume fotografico Con la spada e con la croce – Antiche feste delle Alpi Cozie (Sagep Libri & Comunicazione di Genova). Ha collaborato all’edizione del Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano dell’Università di Torino del 2000. Con Blu Edizioni di Torino ha pubblicato Sei storie di tempi difficili nel 2002 e Quegli anni del Novecento nel 2004. È coautore dell’opera Cultura contadina in Piemonte, in 3 volumi (Bonechi Editrice, Firenze 2008-2009). Con Fusta Editore di Saluzzo ha pubblicato i due volumi fotografici Viaggio in Valle Maira nel 2014 e Viaggio in Valle Varaita nel 2015. Con Editoriale Programma di Treviso ha pubblicato Nella terra dove nasce il Po nel 2018.

Con Priuli & Verlucca di Scarmagno (TO) ha pubblicato Grazia Ricevuta (n. 92 della collana Quaderni di Cultura Alpina) nel 2010, Leggende e credenze delle Alpi Piemontesi e Monviso nel 2013, Piemonte rurale nel 2015, Misteri e meraviglie delle Alpi piemontesi e Civiltà contadina in Piemonte nel 2017, Tesori e miti del Piemonte nel 2018 e Viaggio nelle tradizioni del Vecchio Piemonte nel 2020.

2 Comments
  • paolo
    Posted at 23:31h, 18 Maggio Rispondi

    la riscoperta della cultura contadina e montana è un tema che trovo attuale come risposta a un sistema economico e sociale logoro e logorante.
    Mi ha colpito quella foto con lui sulla croce di ferro, ritengo chr la consuetudine di erigere quel simbolo artefatto sulla cime di una montagna sia, oltre a una concreta deturpazione del paesaggio un simbolo di addomesticamento violento sulla natura libera. Chissà cosa ne pensa l’autore del libro..

  • Enrico Bertone
    Posted at 09:09h, 19 Maggio Rispondi

    Come lei ben dice noi viviamo in un ambiente «addomesticato», di selvaggio è rimasto ben poco, solo talune aree Wilderness che comunque qualche piccola trasformazione umana nel corso dei secoli l’hanno avuta. Le croci sulle montagne vengono poste da secoli anche se la diffusione massiccia si è avuta soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti quando sono state «scoperte» le montagne ed è nato il turismo alpino, oltre ad identificare il punto esatto della vetta è indubbio che la croce rappresenta un simbolo cristiano. Se lei sale su qualche vetta himalayana non troverà la croce ma le bandiere di preghiera tibetane.

Post A Comment