Il regno mondano di Shiva visto da Anarres

Liberate la vostra mente dall’idea del meritare,
e allora comincerete a essere capaci di pensare.
Ursula Le Guin

Il regno mondano di Shiva visto da Anarres
(ovvero, come la fantascienza mi ha aiutata a capire l’India)

 

Piantato in mezzo a una campagna piatta, fra la polvere e la sterpaglia cotta dal sole, sta un cubo dipinto di rosa: una casa bon-bon senza tetto e con l’unica finestra sbarrata, come un giocattolo lasciato cadere dalla mano gigante di un alieno distratto. Non si vede nessuno nella luce abbacinante del mezzogiorno, neanche una pecora che frughi fra i sassi, soltanto un albero a vegliare in lontananza in questo tratto sperduto dell’India del sud, terra stepposa emersa fra acquose piantagioni di riso e distese di mais.
Una grossa targa sul muro avverte che la casa rosa è un dono di una filantropa europea. Dentro, appena dietro la porta, Vidia giace riversa e senza un suono; la madre l’aiuta a mettersi seduta, le mani abituate a vedere al posto degli occhi. Una malattia l’ha resa cieca a sei anni e da sola assiste la figlia diciottenne che non si può muovere e come lei non vede; hanno un paio di capre da cui il marito, affetto da un ritardo mentale, cerca di ricavare qualche soldo.
Siamo nel distretto di Tiruvannamalai, stato del Tamil Nadu, India del Sud: su una popolazione di due milioni e mezzo di persone, il 9% è afflitto da infermità fisiche o mentali, un numero importante se si considera anche l’alto livello di mortalità infantile. Non è tanto questione di malasorte quanto della tradizione, che nelle zone rurali sollecita ancora oggi i matrimoni fra parenti (soprattutto fra zio e nipote) per mantenere la dote in famiglia, nonostante i rischi delle unioni fra consanguinei.
Non lontano si incontra un pugno di abitazioni in muratura costruite dal governo, umide nelle notti invernali ma che diventano un forno durante la lunga estate: soffitto basso, un solo ambiente con il pavimento di terra battuta, dove si stringe un’intera famiglia; non c’è acqua, non ci sono servizi igienici. In una di queste vive Mageshwari con la madre e tre fratelli e sorelle. Passa il giorno sul pavimento, lo sguardo basso, probabilmente infastidita dagli estranei. Ha 21 anni, non può camminare e ha un grave handicap mentale: le assistenti sanitarie che vengono a farle visita una volta al mese la chiamano per nome con tono allegro, cercano di passarle un pettine fra i capelli ispidi ma lei continua a non reagire. Bambini scalzi si affacciano con gli occhi curiosi, mentre la madre di Magesh racconta la sua lotta quotidiana per trovare qualcosa da mangiare e intanto allevare i figli e difendersi da un marito alcolizzato e violento. La sua vita è un po’ migliorata da quando ha ricevuto in regalo una macchina per cucire; con i vestiti che confeziona e vende al mercato riesce a guadagnare qualche rupia.

Quasi all’improvviso ho capito di essere di fronte ai dispossessed di Ursula Le Guin. Non tanto per i diseredati in senso stretto (troppo facile), quanto per la riflessione sociale. Per chi non conoscesse questo capolavoro della letteratura utopistica (tradotto in italiano con il titolo I reietti dell’altro pianeta), è la storia di due pianeti gemelli, Urras e Anarres, uno retto dal capitalismo e dalla guerra e l’altro anarchico e basato sulla rigida condivisione delle risorse; il protagonista, Shevek, cerca di abbattere il muro che li separa ma il contatto fra i due mondi fa emergere ambiguità e contraddizioni.
In India l’assoluta indigenza del povero si accompagna all’accettazione, che è solo l’altra faccia della medaglia dell’indifferenza del ricco: e i due vivono accanto l’uno all’altro senza apparente frizione. Chi ha si merita rispetto e chi non ha viene invece disprezzato. D’altronde qui tutto è karma: se hai successo, se soffri, se diventi una star di Bollywood o se nasci povero e malato. E dato che tutto è frutto del destino e serve alla tua crescita personale, non troverai facilmente qualcuno mosso a compassione o interessato a cambiare la situazione. È difficile parlare di diritti in India, a meno che non ci sia qualcosa da guadagnarci. Chezhian Ramu, direttore dall’ong Terre des Hommes Core, che sostiene migliaia di minori disabili e malati in Tamil Nadu (anche Vidia e Magesh), lo sa bene: aveva 21 anni quando sono morti entrambi i suoi genitori in un incidente e i suoi parenti hanno cominciato a prendere le distanze da lui a causa del suo evidente cattivo karma. Così Chezhian, che pure viene da una famiglia della business class, ha fortificato per le strade di Tiruvannamalai la sua personale visione spirituale secondo cui il karma è solo uno specchietto per le allodole. Un inganno che non può giustificare le enormi disuguaglianze sociali di un paese lanciato nella competizione mondiale per la crescita economica e lo sviluppo capitalista. Ha visto bambini mandati dagli adulti a mendicare davanti ai templi e madri costrette ad uccidere le figlie neonate, in un paese dove soltanto i maschi sono l’onore della famiglia. «Diciamo che rispetto a vent’anni fa la gente non muore più di fame in India – dice oggi Chezhian – in compenso manca tutto il resto: l’assistenza sanitaria adeguata, una scuola efficiente, l’applicazione delle leggi sulla disuguaglianza di genere. Il gap tra ricchi e poveri sta crescendo sempre di più, così come la violenza sulle donne».

Tiruvannamalai è territorio di Shiva, l’ambivalente per eccellenza, colui che mentre distrugge dà nuova vita, il dio cool amato dai teenager, che vedono in lui il trasgressore che fuma bhang, cioè marijuana (anche se molti esegeti preferiscono interpretare questo aspetto ricreativo del divino in modo simbolico). Il paesaggio è dominato da Arunachala, “la collina della saggezza”, dove dicono che Shiva si sia manifestato in forma di fuoco, luogo di pellegrinaggio da ogni parte del mondo. Secondo una pratica millenaria, le notti di luna piena migliaia di devoti girano intorno al celebre monte rosso, perché come dice un antico detto tamil, «vedere Chidambaram, nascere a Tiruvarur, morire a Benares o semplicemente pensare ad Arunachala assicurano la Liberazione». Qui gli occidentali in cerca di illuminazione la sera si riversano per le vie caotiche del centro per ritirarsi al sicuro negli ashram appena il buio si infittisce. Alla luce del tramonto restano a ondeggiare gonne e sciarpe colorate fra i mille souvenir di Ganesh, le strade risuonano di clacson e campanelli mentre nei vicoli bui che si arrampicano sulla collina sacra, fra mucchi di rifiuti e ragazzini che giocano nella polvere, le donne cucinano sulla soglia di casa erbe riso e spezie nelle stoviglie di metallo.
Benevolo e feroce al tempo stesso, Shiva è il dio degli ossimori e per questo mi pare restituisca bene la realtà indiana. Ma camminare sull’asfalto bollente dell’enorme Annamalaiyar Temple di Tiruvannamalai, uno dei più grandi e splendidi dell’India del sud, ricorda ai mordibi piedi occidentali che siamo soltanto ospiti transitori, venuti da un altro pianeta e destinati a ripartire al più presto senza aver colto che l’inessenziale. Lo sguardo obliquo che lanciamo sulle statue delle divinità colorate a confetto ci viene restituito tale e quale e finiamo per sentirci come Shevek, il viaggiatore esule fra i mondi, portato per mano là dove crede invece di dirigere i giochi.
D’altronde anche noi occidentali abbiamo la nostra personale concezione opportunistica del karma: siamo convinti di meritare i privilegi a cui siamo abituati, e quindi a quanto pare ci sentiamo in diritto di escludere altri dal goderne, chiudendo le frontiere a chi si affolla ai nostri confini in cerca di una vita un poco più decente. Inutile risuona l’appello degli abitanti di Anarres: «poiché ciascuno di noi merita ogni cosa, ogni lusso che fu mai accumulato nelle tombe dei defunti sovrani, e ciascuno di noi non merita nulla, neppure un boccone di pane quando ha fame. Non abbiamo noi forse mangiato mentre un altro moriva di fame? Ci punirete per questo? Ci premierete per la virtù di morire di fame mentre altri mangiava? Nessun uomo si merita una punizione, nessun uomo si merita un premio». È il fatalismo 2.0 bellezza: siamo nati in Europa con le nostre case, scuole e ospedali, ci sarà pure un motivo, quindi stacce.

In Tamil Nadu c’è un luogo che forse avrebbe divertito Le Guin. Se l’abbia mai visitato la storia non lo dice, ma Auroville è senz’altro il prodotto di una fantasia interstellare: basti pensare che la pianta della città è concepita come una galassia, al cui centro si trova il Matrimandir, una sfera dorata alta 30 metri, l’anima-astronave che connette divino e umano, da cui si irradiano tutte le attività del nuovo popolo illuminato. Auroville, che il 28 febbraio 2018 ha festeggiato i 50 anni dalla fondazione, è l’utopia di Anarres in salsa new-age, una città ideale dove non ci sono nazionalità o differenze sociali e l’unica autorità a cui obbedire è la “suprema Verità”, un luogo dove i desideri materiali e la competizione sono sopravanzati dal bene comune, i bambini possono sviluppare liberamente il proprio potenziale creativo e il lavoro non serve per guadagnarsi la pagnotta ma ad esprimere se stessi.
A immaginare la società del futuro dove «preparare l’avvento della nuova specie», proprio qui fra i banani e gli attoniti abitanti dei villaggi sulla costa del Coromandel, è un personaggio dalla biografia quanto mai singolare, quasi leggendario, a cominciare dal nome: la Madre. Al secolo Mirra Alfassa, la Madre nasce a Parigi da una coppia di ebrei cosmopoliti e cresce atea e materialista; appassionata di arte, frequenta Rodin, Monet e Cézanne e sposa un pittore da cui ha un bambino. Sembra una vita indirizzata in una direzione precisa ma a 26 anni ecco il primo scarto: comincia a interessarsi di occultismo, lascia marito e figlio per andare in Algeria al seguito di una coppia di medium; ritornata in Francia, si risposa con un filosofo ed emigra in India, nell’enclave francese di Pondicherry, dove incontra Sri Aurobindo, mistico indiano indipendentista, reduce dalle galere inglesi, con cui elaborerà una nuova forma di “yoga integrale”, non senza prima aver fatto una capatina in Giappone per praticare lo zen e incoraggiare la liberazione delle donne. Morta nel 1973 a quasi 96 anni, la Madre lascia 13 volumi di memorie – raccolte da Satprem, ebreo reduce da un campo di concentramento e suo discepolo inquieto e prediletto – in cui racconta la scoperta di un’intelligenza delle cellule, capaci di trasformarsi in una materia superiore in cui l’ubiquità è la norma e vita e morte sono la stessa cosa. Convinta di essere di fronte a un nuovo passaggio evolutivo, fonda la colonia del futuro, capace di ospitare l’«avvento della nuova specie», dove tutto è spiritualità e il divino è nella materia ma – avverte la Madre – let it not become a religion, for heaven’s sake!
Non lasciate che diventi una religione, per amor di Dio: oggi Auroville appartiene al governo indiano ed è un angolo di prato all’inglese, esperimenti di energia alternativa e protezione della biodiversità in una bolla di quiete a due passi da Pondicherry. Un esperimento di vita interculturale, cibo sano e tessuti confezionati senza sfruttamento del lavoro: almeno per i 2500 residenti e gli hippie nostalgici che approdano qui dopo le fatiche della purificazione negli ashram, mentre a pochi minuti si ripropone il consueto disordine indiano di miseria, rumore, traffico, templi, friggitorie all’aperto, macerie e fogne lungo strada, armeggi e traffici per sopravvivere.
Ma i benefici delle città modello alla fine sono soltanto per pochi eletti e costruire un luogo dove libertà significhi anche giustizia per tutti è una faccenda scomoda – come anche l’errante Shevek ha alla fine dovuto imparare a sue spese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Biografia

Federica Tourn è una giornalista indipendente di Torino e si occupa soprattutto di diritti umani, migrazioni, femminismi, religioni. Ha scritto reportage da diversi paesi, dalla Siria alla Grecia, dall’Ucraina all’Ungheria fino in Sud America e in India. Insieme ad altre donne ha pubblicato per l’editrice Claudiana La Parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi e in questo momento sta finendo per le edizioni Aut Aut un libro sui movimenti delle donne come fattore di cambiamento politico. Ama raccontare storie: da dieci anni ne inventa una ogni sera per la sua bambina.

(Le immagini fotografiche del racconto sono di Stefano Stranges).

 

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