Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei

Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei

di Ivana Margarese

Questo tempo di forzato isolamento ci conduce ai ricordi, per lo più memorie di persone, luoghi o riti che ci sono cari. In questi giorni ho così ripensato a un film delicato in cui la memoria viene ricostruita man mano per avvicinarsi a qualcosa che manca: lo sguardo della madre. Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi  dipana infatti attraverso gli sguardi una genealogia al femminile in cerca del volto materno: il primo viso che guardiamo quando veniamo al mondo.

Un’ora sola ti vorrei è stato realizzato a partire da un archivio di immagini di famiglia: fotografie e filmati girati per la maggior parte dal nonno materno della regista, l’editore milanese Ulrico Hoepli, in un lungo periodo che va dal 1926 al 1972. Protagonista è la madre Liseli Hoepli Marazzi, morta suicida a trentatre anni, quando la regista era ancora una bambina. La storia viene ricostruita cucendo insieme testimonianze del passato: filmini e fotografie di famiglia, diari, lettere, referti e conti della clinica e alcune registrazioni sonore tra cui un disco inciso in cui la madre chiacchiera col padre e canticchia appunto alcune strofe di Un’ora sola ti vorrei, canzone che dà il titolo al film. E Il tema della maternità sostanzia l’intero film, perfino in alcuni fotogrammi che meno esplicitamente si ricollegano a esso; per esempio nei panni stesi ad asciugare, la cui immagine ritorna un paio di volte senza un’evidente ragione e che non sono altro che i ciripà, i vecchi pannolini di stoffa per bambini, che venivano usati negli anni Cinquanta e Sessanta.

La regista cerca un incontro con lo sguardo della madre, attraverso le immagini dei film di famiglia e le parole del suo diario.  Un oggetto perduto, uno sguardo drammaticamente non ricambiato, come in ogni teatro dei desideri. Ricordiamo e immaginiamo attraverso quella facoltà umana che, come scrive Calvino in Lezioni americane, ha il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi. Procedendo a ritroso giungiamo fino al mito, a quel muein che indica il chiudere gli occhi e il serrare le labbra, per vedere meglio. Nel mito Euridice è per Orfeo la promessa di un volto passato, l’immagine di colei che gli è cara. Per riaverla e ricondurla con sé, il poeta si inoltra nel labirinto degli inferi, ma si volta a guardarla prima del tempo accordato e la perde per sempre. A Orfeo resta la perdita assoluta, il pianto che non avrà mai fine. Eppure, come ipotizza Foucault in La pensée du dehors, potrebbe darsi che sotto quel pianto splenda «la gloria d’aver visto, per un solo istante, il volto inaccessibile, nel momento stesso in cui si voltava e rientrava nella notte: inno alla luce senza nome e senza luogo».

La regista parla del film come di un complesso percorso di ricostruzione, un mettersi sulle tracce della madre e celebrarla, dopo averla a lungo ignorata e rimossa. Un tentativo di ridarle vita anche solo sullo schermo: “per quasi tutta la mia vita il nome di mia madre è stato ignorato, evitato, nascosto. Il suo volto anche. Ho la fortuna invece di poterla vedere muoversi, ridere, correre”.
Un’ora sola ti vorrei è un film sulla ricerca del volto della madre, sul desiderio di ritrovarlo e specchiarsi in esso. Un processo di elaborazione della perdita e di riconciliazione attraverso un’opera creativa. Sia la ricostruzione sia il dolore fanno parte di questo processo.

Una forma di cura che passa attraverso una lenta riappropriazione del volto e dello sguardo materno.
Dal momento che le immagini dei filmati familiari sono mute, la regista sviluppa la narrazione attraverso l’espediente di una lettera immaginaria scrittale dalla madre e letta dalla sua stessa voce fuori campo. Alina Marazzi indossando una maschera catartica, nella finzione del film presta la propria voce alla madre. In questo modo  ridà vita a colei che le aveva dato la vita.
Un’ora sola ti vorrei parla anche del senso complicato e profondo di inadeguatezza di una donna di fronte ai propri ruoli di figlia, di moglie e di madre, del suo annaspare alla ricerca di qualcosa che vada oltre una funzione richiesta dal sociale e lasci liberi di comprendere e seguire le proprie inclinazioni.
Nella spensieratezza mostrata dai filmati le lettere di Liseli aprono una crepa che mostra un sentimento di indegnità e colpa, di un’incapacità dolorosa ad aderire a un modello predefinito e della sua costante paura di deludere coloro che aveva intorno. Le immagini introducono lo spettatore in un mondo quasi da favola, i cui protagonisti appaiono belli, ricchi e spensierati. È come se Ulrico Hoepli per tutta la vita avesse filmato la figlia in una apparente cornice di felicità senza però riuscire a vederla veramente, senza cogliere lo sguardo che questa gli rimandava, come se la macchina da presa fosse stata incapace di riprendere al di là dell’apparenza.
Liseli Marazzi scrive spesso nei diari del suo «terribile» bisogno di parlare e di essere ascoltata. Bisogno che non trova risposta in chi le sta intorno: i suoi non sono considerati che «pensieri superflui, inutili pagliacciate» che la rendono «noiosa» e incline a farsi tanti problemi stupidi.
Il tema della maternità è certamente oggetto ampio e complesso. Si è da qualche tempo cominciato a mettere in discussione il modello della madre perfetta capace di rispondere a ogni bisogno del suo bambino e a problematizzare le difficoltà, le ansie, i sensi di inadeguatezza, che ogni madre può sperimentare col figlio nel corso del tempo, soprattutto se pressata da un modello, da un ideale di perfezione, che altro non è se non edulcorazione, semplificazione, che finisce con l’irrigidire in schemi il dialogo e il confronto.
La Marazzi confessa di essere stata in grado, grazie alla creazione cinematografica, di compiere quel piccolo grande miracolo di trascorrere anche una sola ora con la madre. Un marginale piccolo grano di sabbia che muove da un sogno necessario. Nei versi del poeta Paul Celan:

tu puoi attendere
finché sotto gli occhi ti riluce un grano di sabbia,
un piccolo grano,
che mi aiutò a sognare,
allorché mi tuffai per trovarti.

4 Comments
  • Gian Paolo Grattarola
    Posted at 18:33h, 11 Aprile Rispondi

    La maternità, nelle sue diverse sfaccettature, è un tema che pur ricorrente ci consente ogni volta di attingere sensazioni nuove e di riscoprirne altri, altrettanto suggestivi, che affiorano dal recesso della memoria. Un tema sempre caro anche quando esso racchiude in sé quell’abisso profondo che talvolta si ha paura di sondare. Una specie di richiamo invincibile che genera slanci nostalgici e laceranti rimorsi. Resistergli è doloroso, abbandonarglisi inevitabile. Perché esso è pur sempre un fluido tormentoso che scorre dentro come una falda sotterranea, ma che alla fine è destinato a riemergere alla luce… Grazie della notifica cara Ivana e del prezioso suggerimento.

  • Massimo Onofri
    Posted at 02:40h, 13 Aprile Rispondi

    “È come se Ulrico Hoepli per tutta la vita avesse filmato la figlia in una apparente cornice di felicità senza però riuscire a vederla veramente, senza cogliere lo sguardo che questa gli rimandava, come se la macchina da presa fosse stata incapace di riprendere al di là dell’apparenza”… Questo è il dramma latente che ha sempre agitato i miei giorni di padre perdutamente innamorato di sua figlia

  • Massimo Onofri
    Posted at 02:40h, 13 Aprile Rispondi

    “È come se Ulrico Hoepli per tutta la vita avesse filmato la figlia in una apparente cornice di felicità senza però riuscire a vederla veramente, senza cogliere lo sguardo che questa gli rimandava, come se la macchina da presa fosse stata incapace di riprendere al di là dell’apparenza”… Questo è il dramma latente che ha sempre agitato i miei giorni di padre perdutamente innamorato di sua figlia

  • Filippo Tuena
    Posted at 09:08h, 12 Maggio Rispondi

    Film bellissimo. Lo scoprii anni e anni fa in una visione notturna su Rai 3. Rimasi annichilito. Comprai il dvd e lo regalai a persone che avevano vissuto storie simili – la mia familiarenon era molto diversa.e mi ci sono ritrovato molto.

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